Riforma del lavoro: maggioranza sul filo, ora sfida al Senato

ROMA. – Palazzo Madama all’orizzonte, rispunta il pallottoliere. Il Jobs Act il 2 dicembre approderà, con o senza fiducia, in Aula al Senato e sarà probabilmente di nuovo tempesta. Perché la frattura alla Camera dei 33 deputati della minoranza Pd sulla riforma è ancora lontana dal rimarginarsi e perché al Senato la maggioranza corre sul filo. Anche per questo, tuttavia, non si intravedono per ora gesti clamorosi dalla gran parte dei fronti della minoranza Dem. Una copiosa uscita dei parlamentari dall’Aula e, ancor più, un’astensione o un voto contrario potrebbero essere fatali non solo al testo ma all’intera legislatura. Gli scenari sono diversi anche perché, nelle ultime settimane il fronte della maggioranza al Senato ha dimostrato un’inaspettata elasticità. La maggioranza assoluta è a quota 161 (i senatori sono 320) mentre la maggioranza che sostiene il governo, pensando a un teorico pienone, può invece contare su 108 voti del Pd (il presidente Grasso non vota) 32 di Ncd, 7 di Sc, 7 di Per l’Italia e 13 delle Autonomie per un totale di 166 unità che, fino a pochi giorni fa, potevano invece contare sui tre senatori di Pi, Mauro, D’Onghia e Di Maggio passati con Gal. L’opposizione avrà la piena partecipazione di FI (60 senatori), M5S (39), Lega (15) e, appunto, Gal (15) e Sel (7) per un totale 136 senatori. E, a proposito di gruppi, oggi Sel ha sollevato, durante la capigruppo al Senato, il ‘nodo’ di Per l’Italia contestando la presenza di un suo rappresentante, Lucio Romano, in Commissione Affari Costituzionali. E la motivazione, sostiene, è che dopo l’uscita dei tre senatori il gruppo ‘Pi’, formatosi peraltro dopo le elezioni, è composto da un numero troppo esiguo di elementi. La questione, è stato deciso, sarà ripresa nei prossimi giorni aspettando che anche Pi comunichi a riguardo una sua decisione. A questo insieme vanno aggiunti i 14 restanti senatori del Gruppo Misto, in buona parte all’opposizione (con qualche ex M5s che potrebbe però votare il testo), ma con la ‘quota’ dei senatori a vita che – tranne che per Carlo Azeglio Ciampi assente per ragioni di salute alle ultime votazioni – ha sempre dato il proprio sostegno al governo. Guardando al Pd il punto di riferimento sembrerebbe restare il voto al Jobs Act dello scorso ottobre. Il sì dell’Aula del Senato giunse con 165 voti favorevoli, 111 no e 2 astenuti al termine di una notte tesa che vide tre senatori della minoranza, Corradino Mineo, Felice Casson, e Lucrezia Ricchiuti, non partecipare al voto. Poche ore prima un gruppo di senatori di Area Riformista aveva invece presentato un documento di dissenso dal testo della legge delega precisando come, tuttavia, non fosse pensabile negare la fiducia a un governo targato Pd. Quel documento verrà ripresentato con le firme di 27-28 senatori bersaniani e con toni meno duri, dopo la mediazione raggiunta alla Camera. Per il resto, le ‘frontiere’ tra le correnti della minoranza a Palazzo Madama sono ben più sfumate che alla Camera. Con una quota di sei senatori civatiani ancora indecisa se votare contro o non partecipare al voto. E la scelta non è facile: con i numeri ballerini del Senato, qualsiasi opzione va attentamente ponderata. (di Michele Esposito/ANSA)

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