Bush, Clinton, Trump, tre modi diversi di interpretare il Paese

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Opposti? Semplicemente, differenti. Due modi di interpretare una stessa realtà. Il riflesso di una società ancorata alle tradizioni ma proiettata al futuro. Insomma, un po’ provinciale ma definitivamente immersa nella globalizzazione. E’ quanto emerge da un inizio di campagna, e siamo solo alle primarie, spumeggiante, vivace; un inizio di campagna in cui le due anime americane sono perfettamente identificabili. E si ritrovano nei discorsi dei candidati, anche se con diverse sfumature.

In quelli Repubblicani, conservatori ancorati alle tradizioni e recalcitranti ai cambiamenti; e in quelli democratici, progressisti che amano le tradizioni ma sono permeabili alla modernità e promuovono l’innovazione. In particolare, in Jed Bush e Hillary Clinton ma anche nel miliardario Donald Trump. Sono questi i candidati alle primarie che più richiamano l’attenzione dei connazionali e che si trasformano in temi di dibattito e di amichevoli discussioni, a volte anche animate.

Mentre il presidente Barack Obama raccoglie i frutti della sua perseveranza e dopo il successo ottenuto con l’accordo sul nucleare con l’Iran osserva con soddisfazione come avanza il “deshielo” nelle relazioni con Cuba, anacronistico vestigio di una “Guerra Fredda” che ormai esiste solo nei libri di storia, Bush e Clinton non solo si affrontano nell’ambito politico ma soprattutto in quello più complesso e delicato della raccolta dei fondi.

Quella che giocano Bush e Clinton è una partita che indirettamente riflette e coinvolge i due mondi che rappresentano. E, infatti, Jed Bush ha in Wall Street il motore della sua candidatura; una candidatura assai vicina all’ambiente delle finanze e del grande capitale per tradizione conservatore, tradizionalista e restio ai cambiamenti e alle novità. Hillary Clinton, invece, ha risvegliato le simpatie dell’intellettualità americana.

In particolare, quella degli ambienti hollywoodiani; di intellettuali progressisti che non disprezzano certo le tradizioni ma sono aperti al mondo, all’evoluzione del pensiero, alle conquiste sociali; che non s’impegnano nel conservare lo “status quo” ma, al contrario, in esplorare nuovi cammini che permettano una migliore qualità di vita.

Nessuno ne dubita. La capacità di trasformarsi in una “macchina da denaro” dell’ex governatore della Florida e dell’ex segretario di Stato emerge dai numeri; numeri che danno le dimensioni della posta in palio. Bush, nelle prime due settimane di campagna, è riuscito a raccogliere ben 11,4 milioni di dollari, ai quali bisogna sommare i 103 milioni del “Right to Rise Pac”, che caldeggia la sua candidatura. Hillary, dal canto suo, ha conseguito 47,5 milioni di dollari, con il contributo del magnate dei media, Haim Saban.

I mondi assai diversi in impostazione e concezioni si riflettono anche nella maniera in cui si interpreta l’economia. Jed Bush ritiene che gli americani, per riportare il Paese sul sentiero della crescita, debbano lavorare di più. E infatti, intervistato dal New Hampshire, riassume la sua ricetta economica in poche parole ma assai chiare.

“Dobbiamo essere più produttivi – afferma -. Ciò significa che la gente deve lavorare più a lungo. Attraverso la produttività può avere più entrate per la propria famiglia”.

In altre parole, più impegno e, soprattutto, più ore di lavoro. La ricetta è semplice. E il Nobel dell’economia, Paul Krugman la riassume così: “orari di lavoro più lunghi significherebbero più prodotto interno lordo (se e quando l’economia dovesse mai tornare alla piena occupazione)”. Ma spiega anche che più ore di lavoro non necessariamente si traducono in “una vita migliore, specialmente se l’incremento del Pil non dovesse «filtrare» fino alle classi più povere”. Bisogna aggiungere, poi, che negli States, ai provvedimenti a sostegno delle classi sociali più umili e meno fortunate, sono destinate risorse “minime”. Non esiste una correlazione diretta tra ammortizzatori sociali e Pil. Ma il discorso di Bush, che non manca certo di coerenza, piace a Wall Street, ai banchieri, ai grossi capitali.

Più articolato il programma economico di Hillary Clinton, in linea con il pensiero keynesiano che da sempre è stato implicito nella filosofia dei democratici. L’ex “First Lady” appare sempre più progressista, sempre più vicina alle frange di “sinistra” del partito dell’asinello; quelle stesse frange che non pare vedano di buon occhio la sua candidatura. Clinton promette alzare i salari dei lavoratori americani, abbattere le barriere che frenano l’ingresso delle donne nel mondo del lavoro e, soprattutto, cancellare la “vergogna delle donne pagate meno degli uomini”, tolleranza zero contro gli abusi e i rischi dell’industria finanziaria e rendere più dura la riforma di Wall Street.

Il suo programma è orientato non agli “inquilini” di Wall Street ma alle migliaia di famiglie povere che stentano a sbarcare il lunario. Anche al ceto medio che vede allontanarsi il sogno americano. In sintesi, la tesi centrale di Clinton è che il paese si costruisce investendo sulle famiglie. Il programma dell’ex “First Lady” ha poi riflessi importanti nell’ambito sociale: diritto universale alla scuola materna, sgravi agli studenti universitari, estensione dell’assistenza all’infanzia, riconoscimento della malattia e del congedo. E va anche oltre, protezione legale per gli immigrati illegali e maggiori risorse per la ricerca medica e l’innovazione.

Un discorso a parte merita, invece, Donald Trump, il “Paperone” dei candidati. Nonostante pochi siano disposti a scommettere su un suo trionfo, oggi è il favorito nei sondaggi tra i candidati repubblicani. Non nega le sue ricchezze e ne fa sfoggio sottolineando che sono proprio queste a permettergli di autofinanziare la propria campagna elettorale, a non dover scendere a compromessi con gruppi economici o di potere e, quindi, a poter dire ciò che pensa. Ed è quello che ha fatto fino ad oggi.

Le sue dichiarazioni sull’emigrazione messicana – “gli emigrati messicani sono violenti, drogati, assassini, stupratori e ladri” – e quelle su John McCain, eroe della guerra in Vietnam durante la quale è stato fatto prigioniero e torturato – “mi piacciono le persone che non si fanno catturare” -, le espressioni insultanti sul conto dei candidati Lindsey Graham e Rick Perry – “non mi pare che Grahan sia particolarmente brillante, forse addirittura più di Grahan lo è Perry” – hanno provocato l’ira bipartisan e alimentato la polemica. Ma Trump piace alla base del partito repubblicano proprio per questo modo di esprimersi. Piace, in particolare, allo “zoccolo” duro del partito dell’elefantino, quello dei conservatori radicali che ha una lunga storia di intolleranza nei confronti dell’emigrazione.

(Flavia Romani/Voce)