Debito, petrolio, emergenti: i tre incubi dei mercati

mercati

ROMA. – “Non vediamo tutto questo pessimismo sui mercati”, diceva a Davos, tre settimane fa, l’amministratore delegato di una grossa blue chip italiana. E’ la misura dello sgomento che in questi giorni attanaglia decine di imprese, fuori e dentro l’Europa, di fronte al crollo dei mercati anche se molti economisti lo avevano predetto. E i fatti di questi giorni suonano come una campana a morto anche per il durissimo programma di risanamento della Grecia, che riaccende il rischio di contagio.

Al centro della tempesta perfetta, che ha una portata tale da coinvolgere Usa, Europa e Asia, c’è un mix fatto di petrolio sotto i 30 dollari, debito stellare e Paesi emergenti in frenata dopo anni di crescita. L’allarme lo lancia, ormai da mesi, la Banca dei regolamenti internazionali: il debito, pubblico e privato, su scala globale è volato dai 31.400 miliardi del 2006 – quando aveva innescato per l’appunto una crisi del debito – ai 49.100 miliardi del 2015.

Un livello “così estremo” – avvertiva la ‘banca delle banche centrali’ – da minacciare il sistema finanziario. Bene: di tutto questo debito, 3.000 miliardi di dollari fanno capo al solo settore petrolifero. Le compagnie petrolifere statali hanno aumentato il proprio indebitamento fra il 2006 e il 2014 del 31% in Cina, del 13% in Russia, del 25% in Brasile, del 17% nel resto degli emergenti.

E’ chiaro che la corsa saudita al ribasso dei prezzi rischia di fare da innesco al default di qualche ‘Big’ che sui mercati viene evocato sussurrandolo appena, per quanto alto è il timore di un effetto a catena. Non si tratta solo dei produttori di ‘shale’ americano, da tempo andati in rosso (un obiettivo saudita era proprio quello). Ma di fondi istituzionali, persino fondi sovrani e, qualcuno dice, banche d’investimento troppo esposte verso il barile, negli Usa come in Europa. Il rischio c’è, se una banca come Goldman Sachs si sbilancia prevedendo una ripresa dei prezzi che invece non si avvera.

Al mix vanno aggiunti i timori per la Cina, alle prese con una fuga di investitori (-735 miliardi di dollari nel 2015) che stanno persino riesumando un dibattito sui controlli ai movimenti di capitali. Per arginare le perdite, molti fondi, sovrani e istituzionali, dalle tasche capienti stanno scaricando investimenti fatti in altri settori. Senza risparmiare nessuno. Contribuendo non poco alla scossa tellurica che investe l’Europa, con perdite arrivate oltre il 3% a Parigi e Francoforte e vicine al 5% a Milano, e un’onda di vendite che fa impennare lo spread (Btp a 146) andando a mettere il coltello nella piaga dell’Eurozona e dei suoi specifici problemi.

Perché quando è fuga dal rischio, come questi giorni, tutti corrono a comprare il bund tedesco, o il treasury americano e scaricano ‘carta’ non solo degli emergenti, ma anche dei Paesi non a ‘tripla A’. Non avendo mai risanato veramente molte delle sue banche, con Londra in vista del referendum e la Spagna senza un governo, l’Europa si trova con una crisi finanziaria tutta sua: quando sui mercati si parla di rischio deflazione e recessione globale, tornano i dubbi sulla loro enorme esposizione al debito sovrano e a quello di un settore privato la cui ripresa è tutta da vedere.

Non solo in Italia. Infatti, mentre la borsa di Atene sprofondava ai minimi dal 1990 in un ‘de profundis’ degli accordi europei dell’estate scorsa (che ne è del programma di ristrutturazione del debito?), le banche elleniche segnavano -24%. Un colosso come Deutsche Bank (-4,26%) ha visto salire i contratti che assicurano dal default a oltre 200, sui livelli del 2012, trovandosi costretta a smentire i dubbi degli analisti di Credit Sights sulla propria solvibilità.

Gli occhi di tutti sono puntati al ruolo salvifico delle banche centrali, in particolare sulla Bce di Mario Draghi, e c’è chi scommette che la Fed farà marcia indietro mentre ormai il 30% dell’economia globale viaggia con tassi negativi. Ma per qualcuno i mercati stanno segnalando che quella fiducia è in via di esaurimento. E’ la “nuova anormale” di crescita, inflazione, moneta e prezzi degli asset che proprio a Davos Nouriel Roubini ha previsto “resterà con noi nel 2016 e oltre”.

(di Domenico Conti/ANSA)

Lascia un commento