Un Don Chisciotte a Sinamaica


MARACAIBO:- È alto, severo, Salvatore Mellone, serietà che si scioglie solamente tra la sua gente: la fascia dei dimenticati. È tra i pochi capaci di vedere esseri umani tra le ombre del dolore. Ombre invisibili per chi scrive la storia con i vincenti. È il mondo degli stracci, della fame, della solitudine. In ognuna di quelle storie Mellone ritrova sè stesso e, contrariamente a chi desidera dimenticare la miseria del passato, lui ricorda bene il suo e da quei ricordi trae la forza per ergersi a paladino di chi è prigioniero del buio tunnel del dolore. Bambini, anziani, indios, connazionali bisognosi, tutti sanno di poter contare in maniera incondizionale su questo italiano emigrato prima in Brasile e poi in Venezuela. Strano “arrivato” che continua ad essere uno di loro.


“In ogni bambino della strada vedo riflessa la mia infanzia, infanzia resa ancora più dolorosa dalla guerra, da una miseria che ci ha strappato un fratello, di quindici anni, ucciso dal male di San Vito perchè mia madre non aveva la possibilità di comprare le medicine che potevano curarlo. In ogni donna indigena che al mattino esce con la sua canoa a tagliare l’”enea” per tessere tappeti e oggetti artigianali da rivendere in cambio di generi di prima necessità, rivedo mia madre che di notte, in Calabria, nonostante il freddo dell’inverno, lavava i panni delle signore bene per poi stirarli al mattino seguente. In ogni anziano vedo mia nonna che ci regalava un fico ciascuno a noi bambini e lei restava senza mangiare.”


Padre assente e madre e nonna che lavoravano senza sosta per tirare su quattro bambini. Il dolore e l’impotenza di fronte alla malattia e la morte di uno di loro. Poi il viaggio in Brasile e ancora lavoro, ancora sacrifici. Piano piano anche le prime soddisfazioni, i tre figli studiano e vanno avanti. Oggi, a Rio de Janeiro, Attilio è un rispettato avvocato, e Mantello uno dei più rinomati oftalmologi. Salvatore specialista in metalmeccanica, soprattutto nel settore dell’alluminio, ha una ditta propria. In Venezuela è arrivato con un privilegiato contratto firmato con una multinazionale. Lavoro durato più di dieci anni. Intanto andava conoscendo la realtà del Venezuela e soprattutto degli indigeni di Sinamaica la cui causa ha sposato senza indugi innamorandosi dei loro sorrisi, la loro semplicità, la rassegnazione di chi non ha strumenti per far rispettare i propri diritti. E della natura, splendida, rigogliosa, sempre molto più generosa degli esseri umani. In quei canali è rimasto impigliato e il Venezuela gli ha rubato l’anima e non lo ha fatto più tornare indietro.


Nel silenzio assoluto della laguna di Sinamaica, mentre la barca solca le acque torbide in cui galleggiano tronchi trascinati dalle recenti piogge, alle sponde boschi di mangrovie piene di aironi bianchi in cui di tanto in tanto si avvistano le scimmie, da ogni canoa che ci scivola accanto si sollevano braccia a salutare e ampi sorrisi accolgono l’arrivo di Mellone. Lo salutano con affetto, con rispetto e altrettanto affetto e rispetto ricevono in cambio. Presidente di Fundalaguna ormai da molti anni, è grazie al suo cocciuto impegno che i loro casolari hanno la luce elettrica ed è sempre grazie a lui se tra le palafitte sommerse dall’acqua alta della stagione delle piogge sono sorte scuole e asili per i bambini abbandonati. Perchè di bambini, tra le palafitte di Sinamaica ce ne sono tanti, tantissimi, di ogni età. I loro visi curiosi spuntano a grappoli dalle finestre di quelle uniche stanze in cui vivono con i genitori, altri familiari e cani rachitici. Prigionieri di misere isole, circondate dall’acqua, nelle quali si svolge la loro vita ora dopo ora. Di tanto in tanto dagli usci aperti si scorgono televisori accesi. A un ritmo frenetico e sconosciuto sputano immagini di un mondo che in questo posto incantevole e maledetto si può solo immaginare e sognare. Si impara subito a condurre una canoa e a volte qualcuno, tra i più piccoli, mentre scopre il piacere di camminare ed esplorare, senza conoscere ancora i limiti della sua esistenza, resta ingoiato dall’acqua.


“C’è stato un tempo – ci dice Lourdes Silva – in cui l’acqua era chiara come uno specchio e noi potevamo nuotare e giocare senza problemi“. Lourdes, goajira nata e cresciuta in quella laguna che conosce palmo a palmo, è una donna di un’eleganza innata e gesti misurati. Della sua infanzia ricorda in particolare i viaggi fatti con la madre al mattino prestissimo, quando ancora non spuntava il sole, per tagliare l’enea e il mijagua, che come tutte le mangrovie affondano le proprie radici nell’acqua salata. In quei pantani il cui silenzio è rotto solamente dal canto degli uccelli e il ronzio degli insetti, sotto lo sguardo immobile e indifferente delle “bavas”, piccoli caimani, affossavano piedi e mani nell’acqua durante ore per tagliare la materia prima con cui elaborare ceste, tappeti e altri oggetti che la madre scambiava con generi alimentari. Il padre invece, come quasi tutti gli uomini, era pescatore. Spesso raggiungeva con la canoa le isole distanti una o due ore di traversata, per rivendere i pesci. E la piccola Lourdes molte volte lo accompagnava. Ricorda il lume che il padre appendeva sulla punta della canoa, la notte serena, il cielo immenso e la sua tranquilla felicità mentre, accoccolata sul fondo dell’imbarcazione, ascoltava il padre o ne rispettava il silenzio riflessivo. Del padre ricorda anche i mille racconti che narrava, a lei e ai suoi dieci fratelli, a sera, quando l’oscurità della notte ingoiava le immagini e lasciava spazio solamente per le voci. Ricorda anche la gioia che portò l’arrivo della luce elettrica nel suo casolare. “Fu un momento indimenticabile. La nostra vita ne ebbe un cambio importante. Finalmente avevamo sconfitto il buio della notte.” Altro momento sensazionale nell’infanzia di Lourdes è stato il giorno in cui, nella bottega che vendeva qualche genere alimentare è apparso il primo televisore. “Il padrone – ricorda Lourdes – metteva delle panche e ci faceva pagare per vedere le trasmissioni. Il negozio si riempiva di bambini, a volte anche di grandi, e tutti guardavamo affascinati. Non ci stancavamo mai.”


“In tempi di siccità – ci spiega Mellone –la laguna appare molto diversa. Resta completamente senz’acqua e ne risente tutta la vegetazione. La vita diventa ancora più difficile.Non essendoci un drenaggio di acque nere si accumulano pozze di melma, da cui i bambini a volte estraggono acqua per bere. Qualche famiglia la fa bollire in un povero intento di sterilizzazione.” La colpa di questa siccità e del mancato drenaggio dei canali è di sette proprietari terrieri, sei ex militari e un civile, che hanno bloccato l’uscita dei fiumi che in passato sfociavano nella laguna. “Più volte abbiamo chiesto alle autorità di esigere a questi “hacendados” di ripristinare almeno in parte l’afflusso dell’acqua. Non c’è niente da fare.” Come non c’è niente da fare con il servizio di acqua potabile. “Sette Presidenti della Repubblica, da Caldera a Chávez hanno inaugurato i depositi d’acqua. Nessuno li ha riempiti. Eppure l’acqua potabile è vitale per queste persone. Una volta, mentre io lottavo per ottenere il bicchiere di latte per i bambini di Sinamaica in età scolastica, un pediatra europeo mi ha detto “Lei deve lottare per il bicchiere d’acqua. Questi bambini hanno il corpo pieno di parassiti. Anche se mangiano restano denutriti perchè i parassiti assorbono gli alimenti.” È forte, piena di rabbia l’indignazione di Salvatore Mellone. Le parole dei potenti riempiono l’aria di speranze che sfumano via con la rapidità con cui scompaiono le macchine blindate. Solo i pavesi che per l’occasione non mancano mai, ricordano per giorni e giorni, finchè l’acqua non li marcisce, le illusioni di grandi progetti, grandi cambiamenti. La realtà prosegue con le inclemenze di sempre.


L’acqua salata, impietosa, corrode le misere costruzioni di legno. E così quelle fatte da un governatore scompaiono per l’ignavia di chi lo segue. Senza manutenzione il legno marcisce “soprattutto se non è stato raccolto con la luna calante” spiega Lourdes. “Lì c’era una scuola, lì una casa per ottanta bambini abbandonati” ci dice Mellone indicandoci dei pilastri vuoti o delle costruzioni fatiscenti. La lotta che porta avanti per combattere l’inclemenza dell’acqua e l’ignavia dei governanti di turno ricorda le battaglie di Don Chisciotte con i mulini a vento. Ma non si perde d’animo e a lui ricorre chi ha un progetto, magari un sogno, per aiutare bambini, malati, anziani. Grazie al suo instancabile impegno ha contribuito a creare una comunità per persone colpite dal male di San Vito, una scuola che accoglie circa mille studenti e una casa per bambini abbandonati. Una casa vera, ben diversa dagli squallidi orfanotrofi. La seguono tre suore missionarie, e i bambini senza famiglia vi trovano il calore dell’affetto, uno spazio degno, “non ci sono più di due letti per stanza“, studi, speranze. Mellone è anche tra i fondatori della Casa degli Anziani italo-venezuelani, Villa Serena, struttura amena in cui, attualmente vivono 27 connazionali, molti dei quali non hanno nè parenti nè risorse economiche. “Purtroppo questi anzianati sembrano l’anticamera della morte. I parenti, quando ci sono, vengono i primi mesi e poi non si fanno più vivi. Io personalmente preferirei un buco da dividere con un cane solo come me, ma per molti anziani Villa Serena rappresenta l’unica alternativa per trascorrere una dignitosa vecchiaia”.


Salvatore Mellone riesce a trovare tempo per tutti. È una persona solare ma anche durissima quando si tratta di lottare per le cause alle quali ha dedicato la sua vita. Esempio che ha trasmesso ai tre figli, Pierino, Anna Maria che vivono in Venezuela ed Eliana che si è stabilita a Rio de Janeiro. Lì, seguendo le orme del padre, si dedica a portare sostegno e aiuto ai più miserabili in favelas in cui altri non si azzarderebbero minimamente a mettere piede.


Indomito Don Chisciotte, con il suo portamento altero e lo sguardo chiaro, Mellone è una di quelle persone che ci riconciliano con la vita e ci fanno capire che vale la pena continuare a lottare per sogni e utopie a dispetto di tutto e di tutti.