Internazionalizzate solo a metà

ROMA.- In Italia le imprese sono internazionalizzate a meta’. Perche’, sull’interno, difettano di qualita’ negli obiettivi da raggiungere e nell’uso di risorse umane qualificate; e perche’ nei percorsi espansivi verso l’esterno – che pure interessano il 40 per cento circa del volume di affari complessivo delle imprese italiane – non c’e’ alcuna sistematicita’, ma solo il primato della molecolarita’, della spontaneita’, e dell’intraprendenza dei comportamenti, soprattutto individuali. Questi sono alcuni dei principali risultati della ricerca svolta dal Censis per conto di ECA Italia. Per il Censis cio’ che serve, allora, e’ un accompagnamento dei processi in atto che dovrebbe assumere almeno tre dimensioni: una maggiore attenzione sul fronte legislativo e fiscale, visto che l’attivita’ di presidio amministrativo delle aziende che operano all’estero non e’ stata ancora semplificata come altre, ma risente ancora di livelli burocratici e di vincoli finanziari sensibili. L’aumento di cura per i processi culturali che seguono i processi di internazionalizzazione: la globalizzazione impone, infatti, in primo luogo di capire le diversita’ dei popoli e dei paesi coinvolti sia da parte delle imprese, sia da parte dei lavoratori.
E infine la crescita dei servizi che possono aiutare le aziende, soprattutto di medio-piccole dimensioni, a cogliere l’internazionalizzazione come un elemento di competitivita’, vale a dire l’outsourcing, la messa a disposizione di banche dati sui paesi di approdo e la funzione di recruitment internazionale.
L’approccio delle aziende italiane all’internazionalizzazione e’ quindi ancora molto immaturo sul piano qualitativo: la modalita’ prevalente di internazionalizzazione e’ rappresentata dall’esportazione diretta (77 per cento) o indiretta (37 per cento). Per l’invio di personale all’estero cresce quindi il fabbisogno di qualifiche medio-basse, trovare infatti un operaio (33,4 per cento) e’ molto piu’ difficile che trovare un manager (28,3 per cento); le competenze richieste sono concentrate sulle conoscenze tecnico-specialistiche (46,9 per cento) e sulle capacita’ commerciali (46,9 per cento). Le capacita’ manageriali sono stimate al 18,8 per cento.
L’internazionalizzazione quindi non riguarda risorse umane di livello alto o qualificato, ma saperi molto piu’ applicativi. Il tipo di lavoratore medio che va all’estero per conto di una impresa e’ uomo, giovane (dai 30 ai 40 anni), con diploma di scuola media superiore, sposato. Questi elementi riflettono l’immagine di imprese al cui interno la qualita’ delle risorse umane non ha ancora alcun peso nel migliorare la qualita’ del loro sviluppo. Sotto quest’ultimo aspetto, le aziende italiane hanno bisogno di ricerca e di selezione di personale per l’estero (56,8 per cento), di selezione di personale estero per l’estero (37,8 per cento) e di formazione specifica di personale da inviare all’estero (27 per cento). I principali benefit del personale inviato all’estero sono: la copertura totale dell’alloggio (81,7 per cento) e della polizza infortuni (80 per cento), seguite dall’indennità di trasferta (60 per cento), dalla copertura assicurativa vita (55 per cento), dall’auto (51,7 per cento) e dalla copertura sanitaria (45 per cento). E’ assente, anche da questo punto di vista un investimento concreto delle imprese sulle risorse umane impiegate in termini professionali e formativi.