“Una famiglia straordinaria, la mia e non soltanto per via di zio Boris”

Una delle interpreti più promettenti della lirica italiana porta un antico nome celtico, Selma (vuol dire “ricca e felice”), e un cognome di peso: Pasternak. Suo prozio era infatti Boris Pasternak, autore del celebre romanzo “Il dottor Zivago” con il quale ottenne nel 1958 il Premio Nobel per la letteratura. Ma quel romanzo fruttò a Pasternak anche la condanna dell’establishment sovietico che lo accusò di “deviazionismo borghese” e di aver tradito la rivoluzione. Sicché lo scrittore non ritirò mai il premio e morì nel 1960 esule in patria. Nel frattempo “Il dottor Zivago” veniva tradotto in 29 lingue e venduto in milioni di copie, e nel 1963 diventava anche un film di successo con Omar Sharif e Julie Christie. Ma questo è solo l’inizio di una saga familiare che dallo scrittore arriva fino a Selma Pasternak passando attraverso la rivoluzione russa, i campi di sterminio tedeschi e la guerra fredda: perciò vale la pena raccontarla.
Boris Pasternak, dunque. Mentre lui prende parte all’appassionato clima intellettuale che caratterizza i primi anni della rivoluzione sovietica, il suo unico cugino di primo grado, Antonin, ebreo e aristocratico come lui, subisce in silenzio i grandi stravolgimenti che hanno trasformato la Russia zarista. Si laurea in medicina e si fa un nome, tant’è che gli viene proposto di trasferirsi a Bucarest per diventare medico personale del principe ereditario. L’offerta della corte rumena equivale alla libertà, e Antonin non si fa sfuggire l’occasione: lascia San Pietroburgo, dove vive, con l’intenzione di non farvi più ritorno. È il 1930: sarebbero passati quindici anni prima che Boris Pasternak si sentisse tradito dalle illusioni giovanili e se ne allontanasse. Per lui sarebbe venuto prima il silenzio e poi l’odiosa campagna di denigrazione che lo avrebbe costretto a rinunciare al Nobel.
Intanto in Romania la notorietà del cugino Antonin varca presto i confini del Paese, tanto che qualche anno più tardi l’Università di Praga gli offre una cattedra alla Facoltà di Medicina. Lui accetta, vi si trasferisce e sposa una donna ceka. Ormai si è lasciato l’Unione Sovietica alle spalle; a Praga oltre a consolidare la sua fama diventa anche esponente di spicco della comunità ebraica.
Ma la vita non gli riserva un destino migliore di Boris: l’antisemitismo che da sempre serpeggia per l’Europa è diventato efferata dottrina con l’avvento del nazismo. L’Olocausto incombe già, e per il dottor Antonin Pasternak si aprono le porte del campo di Teresin. Le varca insieme con il figlioletto Vaclav Vladimir, ma una volta dentro non si rassegna all’inevitabile: trova anzi il modo di salvare centinaia di ebrei. Lo fa con un espediente semplice e ingegnoso: approfittando del fatto che i tedeschi lo utilizzano come medico, Antonin Pasternak scrive un’allarmistica relazione sulle condizioni di salute nel lager.
“Scrisse che era in incubazione una pericolosissima infezione che avrebbe decimato tutti, sia ebrei che tedeschi”, racconta oggi sua nipote Selma.
“A quel punto il comando del lager, fidandosi di quella relazione, ordinò a mio nonno di individuare gli ebrei più deboli, che liberò subito per evitare il contagio. Inutile dire che le liste dei ‘malati contagiosi’ furono lunghissime. Oggi a Gerusalemme uno degli alberi del Giardino dei Giusti che ricordano lo sterminio di sei milioni di ebrei porta il nome di Antonin Pasternak”.
Gli va bene perché i tedeschi non scoprono l’inganno, poi arriva la liberazione per lui e per suo figlio. Il quale era destinato a studiare medicina e a continuare la professione paterna, ma cure e malati non sono fatti per lui, “sicchè”, racconta ancora Selma Pasternak che di Vaclav Vladimir è la figlia, “cinque anni dopo essersi iscritto all’università mio padre si presentò da mio nonno con una laurea in architettura”.
Ma non è nemmeno l’architettura il sogno di Vaclav Vladimir: è la pittura alla quale affida scorci della sua Praga e paesaggi ceki ritratti con mano straordinariamente poetica e ricca di temperamento. E ha subito successo, anche perché il romanticismo russo e la malinconia cecoslovacca che scorrono nelle sue vene si alternano nelle sue opere e nella sua vita artistica e pubblica.
Impetuoso e passionale, non resta indifferente di fronte alle condizioni del suo Paese condannato a sottostare al giogo sovietico, ed entra nella resistenza praghese. Conosce Vaclav Havel, il drammaturgo che sarebbe diventato presidente della repubblica ma che all’epoca era un cospiratore antisovietico: con lui condivide speranze, lotte e qualche mese di prigione. E conosce Alexander Dubcek, il Segretario Generale del partito comunista ceko che ebbe il coraggio dire no ai diktat di Mosca. E’ amico di Jan Palach che per protesta si sarebbe dato fuoco in Piazza Venceslao a Praga.
“Compariva sistematicamente nei rapporti della polizia segreta”, racconta la figlia Selma, “non solo per la sua aperta opposizione al regime, ma anche per il cognome che portava. In quel periodo, stiamo parlando degli inizi degli anni Sessanta, la campagna di denigrazione contro zio Boris continuava anche se lui era già morto. Il successo del ‘DottorZivago’ dava un fastidio enorme a Mosca. E poi mio padre era tenuto d’occhio perché era un uomo colto e non nascondeva la sua cultura: pensi che parlava correttamente russo, ceko, tedesco, francese, italiano, inglese e aramaico. In quel tempo essere poliglotti significava avere interessi spregiudicati, inaccettabili dalla ortodossia sovietica”.
Poi la situazione precipita. Vaclav Vladimir Pasternak intuisce per tempo che Mosca non avrebbe sopportato a lungo gli strappi di Praga, e scappa. Va prima in Bulgaria a Sofia, poi in Jugoslavia a Belgrado. Vive dipingendo, e vive bene perché i suoi quadri sono apprezzati, hanno un mercato.
Intanto, una cinquantina di chilometri più a Nord, a Novi Sad, c’è una ragazza, Nevena Markovic, che a scuola, anziché seguire le lezioni, legge di nascosto “Il dottor Zivago”: il libro nella Jugoslavia del tempo, uno dei satelliti più tolleranti del pianeta sovietico, non è messo all’indice come a Mosca. E sogna, la giovane Nevena: sogna intensamente di incontrare un uomo romantico e coraggioso come il protagonista del romanzo di Pasternak.
Alla fine del liceo va in gita con tutta la sua classe a Fiume. In quello stesso giorno anche Vaclav Vladimir Pasternak è a Fiume per una breve vacanza.
“Si incontrarono per caso sul lungomare”, racconta Selma, “e fu colpo di fulmine. Quando mia madre venne a sapere che mio padre era addirittura nipote di Boris Pasternak non riusciva a credere alle proprie orecchie. Non aveva incontrato un eroe creato dalla fantasia dello scrittore, ma addirittura un suo familiare”.
Racconta Nena oggi: “Era tremendo e bellissimo”, e gli occhi le brillano ancora.
È un amore travolgente, che durerà per tutta la vita. Nena diventa moglie, amante, confidente, modella, manager di Vaclav Vladimir. Ma non c’è tempo per il matrimonio. Il mondo sovietico va stretto a una coppia che insegue libertà e ispirazione.
“Mio padre organizzò tutto alla perfezione”, dice Selma Pasternak. “Da Belgrado lui e la mamma raggiunsero il confine, che attraversarono nottetempo clandestinamente con il rischio di venire falciati dalle raffiche delle guardie di frontiera jugoslave. Ma ce la fecero. Arrivarono a Trieste, e da lì raggiunsero Brescia dove si sposarono”.
A Brescia Vaclav Vladimir lavora intensamente: fa dei restauri per conto del Vaticano, progetta piccoli insediamenti industriali, ma soprattutto dipinge, a volte preso da un raptus creativo che lo tiene chiuso nel suo studio per giorni. Fa mostre di successo che non si fermano all’Italia, e i suoi quadri varcano i confini e anche l’oceano, come un “omaggio a Louis Armstrong” che è stato esposto anche al Metropolitan Museum di New York.
“Ha guadagnato milioni e ha speso milioni”, racconta Selma.
“Se non fosse stato per la mamma che a un certo punto metteva un freno alle sue spese saremmo finiti sul lastrico. Ma non spendeva a casaccio. Era semplicemente generosissimo: dava a tutti quelli che avevano bisogno. Periodicamente la nostra casa si riempiva di profughi kosovari, rifugiati serbi o esuli croati, e poi di musulmani e di ortodossi che noi ospitavamo per mesi perché loro non sapevano dove andare. Mio padre e mia madre non chiedevano a nessuno a quale etnia o religione appartenesse: lo aiutavano e basta. Durante la guerra nei Balcani la nostra casa era diventata un porto franco per chi scappava dall’inferno”.
A Brescia nasce Selma, figlia unica, e le prime parole che sente da suo padre sono in musica.
“Mi addormentava cantandomi ‘Bella figlia dell’amor schiavo son dei vezzi tuoi’, la celebre romanza del Rigoletto”.
La piccola Selma, comincia a studiare danza classica che non ha nemmeno cinque anni; poi a sette suona il pianoforte. Ma è difficile continuare a Terzo d’Aquileia, in provincia di Udine, dove nel frattempo la famiglia si è trasferita. A Udine però c’è il conservatorio musicale, e Selma lo frequenta. Si diploma con lode, va a Milano per perfezionarsi, torna a Udine. Comincia la trafila dei concerti e dei concorsi, prassi inevitabile per chi vuole emergere.
Continua a studiare. Ostinata (“la storia della mia famiglia è una storia di ostinazione”), perfezionista. Non cura solo la sua voce, ma anche la sua gestualità, e non tralascia le lingue, per le quali ha una spiccata predisposizione ereditata dal padre (parla italiano, serbo, ceko, inglese e russo). La prima volta che partecipa a una selezione canora, ed è giovanissima, vince il primo premio al prestigioso concorso di Canto Lirico di Fusignano (Ravenna). È il 1998. L’anno dopo si fa notare a Rimini e a Bergamo, dove canta in occasione del bicentenario della nascita di Gaetano Donizetti. Nel 2002 il debutto operistico: è Norina nel “Don Pasquale” di Donizetti, al teatro Bonci di Cesena. Affascina, e nello stesso anno la chiamano ancora a Cesena al concerto in onore di Renata Tebaldi; nel 2003 è Musetta nella “Boheme” di Puccini, Violetta nella “Traviata” di Verdi, Adina nell’”Elisir d’amore” di Donizetti. E per ogni interpretazione, critiche favorevoli sui giornali
Poi il colpo di fortuna (indispensabile anche se si è bravi): nel giugno 2004 viene ammessa a partecipare al master class che Katia Ricciarelli, interprete indimenticata e talent scout della lirica italiana, organizza ogni anno a Sabbioneta. È il più selettivo dei concorsi, e Selma ci va con trepidazione. Alla fine della sua esibizione, la Ricciarelli le si avvicina e le dice:
“Mi piace la tua voce. Brava. Lavoreremo insieme”.
Da allora le due donne diventano inseparabili: Katia la vuole a “Piazza Grande”, la seguitissima trasmissione televisiva della Rai dove ha uno spazio in cui presenta le promesse della lirica; e poi la manda a Londra a cantare, la vuole alla stagione lirica di Lecce di cui è direttore artistico, a Macerata. Il decollo è avvenuto.
Signora Pasternak, il suo cognome la ostacola o la agevola?
“No, non mi ostacola. Ha già ostacolato a sufficienza mio padre a Praga. Ma non posso nemmeno dire che mi agevoli: a una che porta un cognome come il mio si chiedono scintille. Così io devo impegnarmi al massimo per restare all’altezza di quello che la gente si aspetta da me”.
Qual è l’eredità maggiore che ha ricevuto dalla sua famiglia?
“La capacità di capire gli altri. Io sono ebrea dalla parte dei Pasternak, ortodossa dalla parte della famiglia di mia madre, i cui nonni comunque erano musulmani. Questo intreccio di culture mi consente di non ergermi mai a giudice. Troppa gente lo fa, perciò le è difficile comprendere i grandi mutamenti che stiamo vivendo”.
Ha mai pensato di fare un mestiere che non fosse legato all’arte?
“No. Fatta eccezione per mio nonno che era medico, nella mia famiglia tutti hanno avuto a che fare con l’arte. Il padre di zio Boris Pasternak era un pittore affermato, grande amico di Lev Tolstoj; lui, il più famoso della famiglia, ha ottenuto il Premio Nobel con ‘Il dottor Zivago’; mio padre con la pittura ha fatto vivere mia madre e me in un’atmosfera irripetibile di tensione artistica. Insomma, il mestiere che faccio ce l’ho nei cromosomi”.
E c’è un motivo particolare per cui ha deciso di fare la soprano e non, diciamo, la pittrice?
“Ho scoperto di avere un dono: la mia voce. Ebbene voglio condividere questo dono con gli altri. Tutto qui”.