Com’è la Chiesa degli oriundi?


Roma – Sta attento, si guarda intorno, chiacchiera in inglese con i sacerdoti provenienti dai paesi del mondo anglofono. «Un’intervista in italiano?» chiede. «Si, ma parli lentamente» aggiunge. Perché monsignor Ronald Marino al Primo Convegno del Missionari Italiani in Emigrazione che si é concluso al Complesso Monumentale di Santo Spirito in Sassia, a Roma, rappresenta una nuova dimensione dell’italianità nel mondo: quella degli oriundi e, in questo caso, quelli nella Chiesa. Capo dell’Ufficio Migrazioni della diocesi cattolica di Brooklyn, siciliano di terza generazione, gli abbiamo rivolto qualche domanda.


– Monsignor Marino, come vive la chiesa degli oriundi che é quella che lei rappresenta?


– Nella diocesi di Brooklyn che è quella più piccola degli Stati Uniti come territorio, ma la maggiore per popolazione, abbiamo 38 parrocchie fondate dagli emigrati italiani, dove ancora oggi si celebra la messa in lingua: noi figli abbiamo scoperto la nostra identità americana crescendo nella casa italiana. In casa mia si parlava dialetto siciliano: era la mia prima lingua perché c’erano i nonni. Ora tutto è cambiato, ma gli anziani non parlano ancora molto inglese: non hanno avuto bisogno perché vivono in famiglia. I nipoti sentono invece la loro identità italiana e speriamo che questo faccia continuare le tradizioni cattoliche della chiesa.


– C’è una diversità tra il servizio agli immigrati cattolici delle classiche comunità irlandesi e italiane e le altre?


– Nella mia diocesi sono rappresentati 167 paesi di emigrazione, non solo irlandesi e italiani, e ogni gruppo ha compiuto lo stesso percorso degli italiani, gli stessi passi, tenendo fortemente la propria identità all’inizio; poi, quando si sono sentiti sicuri, iniziano a inserirsi e tutti fanno così. C’è il rispetto per tutti: usiamo 25 lingue ogni domenica per le messe. Il servizio è lo stesso per tutti.


– Un missionario mi ha parlato della sua diversa esperienza tra gli italiani degli USA e quella del Canada dicendo che negli States sono più americanizzati. Cosa ne pensa?
– In verità, anche da noi le feste sono rimaste: basta venire da noi il Venerdì Santo, la festa del Monte Carmelo…c’è una processione italiana di 7mila persone! Abbiamo tenuto forti le tradizioni delle origini, anche nelle discendenze, rispettando come erano, senza volerle cambiare.


– Lei non è cittadino italiano, come mai?


– La cittadinanza è importante, ma sono nato lì...


– Ma in questi giorni lei è qui come missionario italiano: non è strana questa dimensione?


– Non è strano. Gli americani vengono tutti da immigranti. Solo gli indiani d’America sono veri americani.


– Ci sono immigrazioni cattoliche difficili negli Stati Uniti?


– Si quelle arabe, di caldei, libanesi, siriani, egiziani. La loro è un’immigrazione difficile, non in quanto cattolici, ma perché arabi. Noi offriamo un trattamento di rispetto a tutti gli immigrati. Anche a livello di servizio, cerchiamo sacerdoti missionari provenienti dai loro paesi, abbiamo servizi legali, etc. Per loro è una libertà essere cattolici in un Paese come l’America, mentre raccontano le persecuzioni contro i cattolici nei loro Paesi.


– In questo momento di crisi internazionale, come si sono comportate le comunità immigrate negli Usa? Sono state dalla parte dei Paesi di partenza o di quello d’accoglienza?


– Si sono registrate diverse opinioni, come in tutto il mondo. Come è normale nel nostro paese. Tutti sentono la guerra influenzati dai media. Secondo me si sono un po’ allineati con il paese di origine, ma quando sono in pubblico stanno con gli americani. Alcuni pensano che seguire l’America possa dare più forza.


– Nella sua diocesi sono state chiuse 22 scuole cattoliche: che futuro si prospetta per l’istruzione religiosa?


– E’ avvenuto per mancanza di studenti. Abbiamo chiuso per rafforzare altre 180 scuole cattoliche della diocesi. Abbiamo fatto scuole regionali e, chiudendone alcune, abbiamo consolidato il sistema nel complesso e il suo futuro.