Un pó di storia


Se non ci sono dubbi che le radici del mangiar bene in città sono antichissime, va da sé che, com’è destino di ogni capolouogo, la tradizione gastronomica recuperi e sintetizzi un po’ tutto ciò che arriva dalla regione. A cui, nel caso di Torino, si aggiunge la cultura gastronomica legata alle grandi ondate di immigrazione.


La cucina torinese diventa dunque la summa della grande cucina piemontese, con qualche tocco di innovazione interregionale, come la pasta, per esempio, che nel più rigoroso sistema gastronomico subalpino faceva la sua comparsa solo occasionalmente, ed esclusivamente sotto forma di agnolotti e tajarin. Grande protagonista del mangiar bene torinese è il formaggio. Si narra che i primi grandi estomatori di tome siano stati i cartaginesi, scesi dalle Alpi al seguito di Annibale, in un lontano settembre del 218 a.C., quando data il primo di una lunga serie di assedi di un piccolo villaggio destinato a diventare capitale.


Ed è proprio nel ruolo di capitale che Torino esprime il meglio della sua cultura a tavola. E’ la capitale del Savoia, tra ‘500 e ‘600, a elaborare una vera filosofia del mangiar bene. E a creare quella sintesi unica tra cucina del territorio e cucina di corte, con tocchi e raffinatezze alla francese.


Nascono da questo connubio unico i grandi piatti della cucina torinese. Le verdure cotte ripiene, per cominciare: carciofi, i peperoni, le zucchine, elaborati secono la famosa ricetta detta turinèisa a base di spezzatini di vitello, salsiccia, prezzemolo, uova, vino bianco, noce moscata e una foglia di erba di S. Pietro, immancabile negli orti locali. E l’abitudine al ripieno altro non è che il riciclo in forma di trito di una cucina ricca, di palazzo, preparata in quantità abbondanti.


Riciclo e riutilizzo sembrano essere le parole d’ordine della cucina locale, come si conviene alla più autentica tradizione contadina. Ma sempre con qualche tocco di insolito, di inedito, persino di esotico. Basti pensare al piatto tipico per eccellenza, quello a cui nessun torinese rinuncia,almeno una volta all’anno, la bagna caoda, servita persino in Crimea alle truppe di Lamarmora in guerra contro l’esercito russo, nel 1855. Nata espressamente per utilizzare le verdure del tardo autunno, cavoli e cardi amari, ma preparata curiosamente con ingredienti che arrivano praticamente tutti da fuori, onnipresente aglio a parte.


Torino non è refrattaria al nuovo, diciamo piuttosto che lo rielabora, lima gli eccessi e lo fa diventare compiutamente subalpino. Come è successo al pesce, per esempio. Il gusto per il pesce di mare fresco, a torino, lo hanno portato gli immigrati del Sud. Prima, nella cucina di casa, solo acciughe o merluzzo sotto sale, e nei menù dei ristoranti solo qualche rara apparizione di trote, a parte i pesci di fiume in carpione o le fritture di pesciolini di fiume. Oggi persino nei templi della gastronomia di tradizione come il Cambio fanno la loro comparsa piatti di pesce.