Il ’68 degli immigrati: radici e stereotipi


CHICAGO – Anthony Orum è docente di sociologia presso l’Università dell’Illinois di Chicago e da sempre svolge ricerche sulle tematiche dell’immigrazione. Il suo ultimo lavoro, ancora

in fieri, si concentra sulle nuove generazioni di immigrati negli Stati Uniti e sui modi in cui esse stanno trasformando le istituzioni americane. Un’occasione per riflettere sugli eventi del passato e, soprattutto, sui nuovi modelli d’integrazione, ancora non del tutto condivisi nell’opinione degli esperti del settore. La storia dell’immigrazione statunitense è strettamente legata alla sequenza dei provvedimenti legislativi che hanno disciplinato la materia.


Dalla legge di riduzione dei visti e di esclusione di alcuni Paesi di provenienza (quelli asiatici in primis) del 1924  passando per il provvedimento del ’52 che introdusse il sistema delle quote, fino ad arrivare all’ImmigrationAct del 1968, la base giuridica dell’emigrazione odierna negli USA . Proprio quest’ultimo provvedimento costituisce lo spartiacque, non solo giuridico, tra la vecchia e la nuova immigrazione, oggetto di studi delle nuove ricerche.


La legge del 1968 eliminò le discriminazionibasate su razza, luogo  di nascita, genere e residenza, abolendo ufficialmente le restrizioni all’immigrazione orientale; oggi gli emigranti provengono da tutto il mondo. L’imposizione delle quote ebbe la sua evoluzione a partire dal 1978 con l’incremento del tetto massimo d’ingressi che spesso ha superato la cifra di 1.000.000 di nuovi emigranti all’anno.


Ma che effetti ebbero concretamente le leggi del 1968? “Mentre in passato molti emigranti provenivano dall’Europa, oggi la maggiorenza di essi, al pari dei rifugiati, è entrata negli Stati Uniti da altre parti del mondo, in particolare dall’Africa, dall’Asia e dall’America Latina – spiega Anthony Orum – Per conseguenza, nel corso degli ultimi 37 anni, c’è stato un evidente cambiamento nel carattere e nella composizione degli emigranti. Oggi, ad esempio, – continua il docente – circa un terzo di essi proviene dal Messico, mentre, nel contempo, relativamente pochi sono arrivati dall’Europa Occidentale”.


Per la comunità italiana la legge del 1968 non ebbe effetti significativi in termini di flussi, dal momento che la grande ondata era da tempo in via di esaurimento. “Osservando il rapporto del Boreau of the Census dello U.S. Department of Commerce – sottolinea Guido Tintori, storico dell’emigrazione e ricercatore presso la Fondazione Agnelli di Torino – si può osservare come l’incremento sia stato pittusto modesto, anche se bisogna comunque rilevare come il provvedimento consentì il ricongiungimento famigliare per alcuni gradi di parentela”.


Nel panorama generale delle diverse etnie, le differenze a livello quantitativo sono comunque evidenti. Come ricorda Orum, oggi negli Stati Uniti sono circa 33 milioni i cittadini nati all’estero cui dovrebbero aggiungersi circa 8-9 milioni fuori dalle statistiche perché entrati clandestinamente; in totale, la percentuale degli emigranti si aggira attorno a quota 12-13%, una quota decisamente più bassa rispetto a quella dell’epoca delle maggiori migrazioni tra il 1880 e il 1920.


Ma la differenza maggiore tra i “vecchi” e i “nuovi” emigranti sembra collocarsi principalmente sul piano qualitativo , chiamando in causa soprattutto il rapporto degli immigrati con la cultura d’origine. Gli stranieri giunti negli USA nella prima metà del XX secolo furono quasi costretti a perdere la loro identità sulla base di forti pressioni, come spiega chiaramete Anthony Orum.


Queste identità si persero in parte a causa di pressioni politiche e in parte a causa delle due guerre mondiali – spiega Orum – Il primo conflitto, ad esempio, portò alla scomparsa di molti elementi culturali degli immigrati tedeschi che si sentivano costretti, allo scopo di continuare a stare in America, ad abbandonare le loro ‘qualità tedesche’.


La situazione non parve migliorare con il secondo conflitto. “

La seconda guerra mondiale produsse effetti simili – continua il sociologo – Chiunque non si mostrò ‘patriottico’ verso gli Stati Uniti dovette affrontare forti pressioni politiche per diventare un cittadino americano e per sostenere il Governo. In effetti, dunque, tanto le pressioni politiche quanto le guerre condussero all’assimilazione di quei residenti nati fuori dai confini americani”.

Dal punto di vista culturale, il 1968 segnò per il multiculturalismo un’autentica svolta capace di esprimersi sia a livello accademico sia nell’ambito della cultura popolare.


Il ’68 negli Stati Uniti segna un vero e proprio revival etnico – spiega Tintori – iniziato con un forte movimento di rivendicazione dell’orgoglio delle proprie radici presso la comunità afroamericana ed estesosi in seguito a tutta la nazione”.

Un revivalismo capace di influenzare la cultura a distinti livelli.


Questa rivendicazione si espresse tanto ‘dal basso’ con una manifestazione di orgoglio etnico che coinvolse tutti i ‘non wasps’, tanto ‘dall’alto’ con cambiamento deciso nelle impostazioni accademiche che riservarono uno spazio sempre più rilevante alle diverse componenti etniche americane”.

E gli emigranti di oggi? In un contesto di attrazione da parte della cultura del Paese ospitante, unitamente all’intenzione di non perdere i contatti con il proprio background, i nuovi stranieri sembrano quasi saltare continuamente da una cultura all’altra.


Nel caso dei messicani, molti ritornano in patria per le vacanze di Natale per poi rientrare negli Stati Uniti – spiega Anthony Orum – Questa abitudine aiuta a promuovere un continuo legame con la terra natale. Inoltre – conclude il docente – questi immigrati vivonono e rimangono in contatto con i loro amici, con la loro famiglia e i loro vicini in patria”.

Per gli italiani la spinta al recupero delle proprie origini è sempre stato un elemento centrale, tuttavia questo diffuso orgoglio si è spesso scontrato con il dilagare dei pregiudizi verso la comunità. Oggi, però, la situazione sembra essere andata incontro a un cambiamento radicale.


Tra la fine degli anni ’80 e l’inizio dei ‘90 c’è stato un profondo cambiamento nella percezione dell’italiano che ha portato al superamento di quelle immagini stereotipate del mafioso o, nella migliore delle ipotesi, del ‘playboy fannullone’ – spiega Tintori – In seguito presso le comunità yuppies, sempre attente ai simboli degli stili di vita di ‘tendenza’, i marchi e le abitudini italiane, veicolate soprattutto dalla moda e dal cibo, hanno contribuito a creare un’immagine dell’italiano come simbolo del successo. In altre parole – conclude lo storico – si è passati da ‘Il Padrino’ e ‘La febbre del sabato sera’ ad Armani e alla Ferrari”.

La rinnovata immagine degli italiani sembra, secondo Tintori, confermata da alcune recenti inchieste di sociologia che evidenzierebbero una spiccata ammirazione per gli italiani da parte del pubblico americano .


A lamentare ancora le discrimanazioni sono rimaste solo più alcune associazioni di emigranti come la NIAF (National Italian American Association), ma in realtà gli stereotipi che queste organizzazioni continuano a denunciare sono molto meno diffusi che in passato “.