Gianni Pittella: Sull’esito del referendum in Francia


E così ciò che più si temeva si è verificato. La Francia, già protagonista in negativo di diversi rallentamenti e vere e proprie crisi del processo di integrazione – chi non ricorda il fallimento della Ced del 1955 e la crisi «della sedia vuota» dell’età di de Gaulle – ha apposto il proprio sigillo a questa ennesima pagina critica della lunga storia europea.


Certo, con ciò non si vuole assegnare a Parigi l’etichetta di Paese euro scettico. Sarebbe ingeneroso verso il grande contributo offerto all’integrazione europea da personalità come Monnet, Shumann e più recentemente Mitterrand. E tuttavia un dato storico, dai risultati del referendum svoltosi in questi giorni, esce confermato. Quando il processo di costruzione europea ha compiuto significativi passi in avanti in relazione a fattori o elementi essenzialmente economico–monetari, finanziari, produttivi o commerciali, la Francia non si è mai tirata indietro, anzi. Soprattutto poi quando tali progressi lasciavano intravedere un immediato rendiconto positivo o ricadute tangibili sul piano nazionale, Parigi addirittura li ha promossi e incoraggiati.


E’ opinione diffusa nella maggioranza della storiografia che la stessa CECA servisse alla Francia per mettere sotto controllo la produzione tedesca di carbone e acciaio, evitando così una reindustrializzazione troppo dinamica, rapida, competitiva e soprattutto autonoma dello storico scomodo vicino. Andando avanti negli anni, gli atti delle conferenze di Messina, Venezia e Roma – che portarono poi nel 1957 alla firma dei trattati istitutivi di CEE ed Euratom – mostrano con chiarezza quanto la Francia di Guy Mollet, seppur con spirito cooperativo, si battè affinchè praticamente tutte le condizioni da essa imposte fossero accettate dagli altri cinque al fine di una conclusione positiva del negoziato: il trattato Euratom, le enormi concessioni relative alla graduazione nel tempo della liberalizzazione degli scambi, l’inclusione nel Mercato Comune dei prodotti agricoli e l’associazione ad esso dei possedimenti coloniali. Si trattava di quattro temi di scarso interesse se non addirittura controproducenti per Italia, RFT e Benelux, ma di fronte ai quali l’irrigidimento di Parigi spinse i cinque a cedere «su tutta la linea», come scriverà poi il Ministro degli Esteri italiano Antonio Martino, pur di portare a compimento il primo «rilancio dell’Europa» dopo la crisi del 1954 – 1955.


Si potrebbe continuare a lungo in tale ricostruzione citando, ad esempio, quanto Parigi abbia insistito per la realizzazione e ottenuto dal funzionamento della PAC, quanto fossero stati prevalentemente i danni economici arrecati alla Francia – sempre in tema di agricoltura, restituzioni, prelievi ecc. – dalla crisi del 1965 a spingere de Gaulle ad accettare il «Compromesso di Lussemburgo» dell’anno seguente, o quanto da motivazioni simili fossero state influenzate le scelte della presidenza Pompidou negli anni ’70.


Fatto sta che, in maniera esattamente speculare a quanto fin qui affermato, ogni volta che l’Europa ha cercato di compiere progressi sul piano politico più generale, senza cioè nessuna immediata ricaduta monetizzabile, difficilmente i governi nazionali più europeisti, il Parlamento Europeo, la Commissione hanno avuto al proprio fianco Parigi. Con la lodevole eccezione per alcune scelte compiute da Mitterand, una per tutte la riforma del bilancio CEE varata al Consiglio di Fontainebleu nel 1984, si trattasse di Ced, Cpe, Progetto Spinelli o Atto Unico Europeo del 1986, mai si ricorda un impegno politico e strategico stringente e disinteressato della Francia volto a rafforzare, rilanciare o sostenere l’idea di una Europa politica.


Ecco perché chi ha presente il profilo storico complessivo del rapporto tra tale Paese e il processo d’integrazione nutriva poche speranze circa l’esito della ratifica del trattato costituzionale. Come è ovvio che sia, tuttavia, non tutto può esaurirsi nella ricostruzione storica.


C’è poi l’attualità. Una classe dirigente sostanzialmente e nei fatti euro scettica, al di là delle dichiarazioni di principio o elettorali, che va dall’estrema destra all’estrema sinistra passando per ampi settori anche dei partiti più moderati – Ump e Psf – non è certo la più adeguata a diffondere e radicare la cultura politica europeista tra una opinione pubblica sovente distratta, disincantata e lontana dalla politica.


Gli atteggiamenti assunti da Chirac sul recente conflitto iracheno a prescindere dallo sforzo per la ricerca di una comune posizione dell’Unione, le posizioni espresse da Sarkozy sul «grande allargamento» e sull’avvio del negoziato con la Turchia, gli ingiustificati richiami di Raffarin alle responsabilità dell’Unione Europea di fronte alla crisi economica nazionale – fino a giungere alla nefasta modifica del Patto decisa in sede Ecofin col determinante sostegno di Parigi – sono solo alcuni esempi a sostegno della tesi di quanto l’attuale classe dirigente di governo fosse assolutamente poco credibile nei suoi appelli per il si al referendum di ratifica. Tra l’altro la metafora dell’ «idraulico polacco» ha reso e rende bene la natura quasi ancestrale e sicuramente irrazionale di una serie di paure e timori diffusi nelle opinioni pubbliche europee e, temo, sempre più difficilmente estirpabili.


Dall’altra parte del campo la situazione non appare migliore. Il Partito Socialista è in crisi di identità e di definizione ideale e programmatica dall’uscita di scena di Jospin. Tale crisi, che si protrae ormai da quasi cinque anni, ha di fatto lasciato campo libero a settori e forze a sinistra, anche interne ma soprattutto esterne al partito, a vocazione protestatoria, ideologica, fortemente demagogica e nazionalista.


L’assenza di un forte soggetto riformista ed europeista del socialismo europeo in Francia sta, tra l’altro, sottraendo alla democrazia di quel paese l’opportunità di preparare una credibile alternativa di governo in vista del prossimo appuntamento elettorale presidenziale.


Il radicamento poi della forza politica di Le Pen non fa quasi più notizia. Parliamo di un partito e un candidato che alle ultime presidenziali è giunto al ballottaggio raggiungendo circa il 20% dei consensi. Considerato tale quadro, che si sovrappone a quello storico senza scalfirne la validità di alcune traiettorie costanti e fondamentali della storia francese, è già quasi un miracolo che i si abbiano ottenuto circa il 40 – 43 % dei consensi.


L’esito di tale voto, inoltre, pone la definitiva pietra tombale, ove mai ve ne fosse stato ancora il bisogno, sulla «sana egemonia» dell’asse franco – tedesco in Europa. E il dramma più grande è che nessun nuovo «asse», gruppo di Paesi o associazione di leadership europee sembra in grado di subentrarvi.


Certamente non l’Italia, e neanche la Gran Bretagna o la pur volenterosa ed euro entusiasta Spagna di Zapatero. Che fare ora? Immaginare che si possa andare avanti senza la Francia è irrealizzabile: non funzionerebbe mai la formula di una Costituzione «per molti ma non per tutti» né giuridicamente né politicamente. Continuare con il processo di ratifica, sperando che non si manifesti alcun effetto domino, facendo poi un bilancioquando entro fine 2006 tutti i 25 avranno detto la loro, sembra l’unica strada percorribile.


Ma se nuove bocciature venissero da altri Paesi fondatori – mercoledì si vota in Olanda e il 10 in Lussemburgo – o da altri «grandi» come Gran Bretagna e Polonia, allora il valore simbolico e concreto di tali scelte diverrebbe drammaticamente diverso, e tutto il processo costituente dovrebbe essere in qualche modo profondamente revisionato se non addirittura accantonato.


Una considerazione finale. Una Ue ferma alle regole di Nizza, alla Pesc quale massimo sforzo unitario in politica estera, all’attuale assetto istituzionale con 25 Presidenti del Consiglio Europeo che ruotano ogni sei mesi, senza personalità giuridica e con una Commissione che rischia di arrivare a 50 membri, sta rinunciando a giocare alcun ruolo significativo sia nelle relazioni transatlantiche sia sullo scenario internazionale più complessivo.


Che tale triste destino sia poi deciso proprio dalla Francia appare quasi una beffa della storia. Di fatto Parigi rafforza, con la sua scelta, l’unilateralismo americano nel campo occidentale e quindi, almeno per ora, anche nel mondo.


*Segretario generale Delegazione italiana nel Gruppo PSE