Milano, morto Ambrogio Fogar l’uomo delle missioni impossibili

MILANO – E’ morto la scorsa notte, nella sua casa di Milano, Ambrogio Fogar. Il 64 enne esploratore era paralizzato dal 1992, a causa di un incidente automobilistico avvenuto nel deserto del Turkmenistan durante il raid Parigi-Mosca-Pechino. Da quasi tredici anni era bloccato in un letto e respirava e parlava solo grazie alle macchine. Il decesso è avvenuto poco prima delle due di notte, nell’appartamento di via Crescenzago. Inutile l’intervento dei sanitari del 118, accompagnati da una patuglia dei carabinieri. Uomo di grande coraggio, avrebbe voluto che si facessero esperimenti con cellule staminali sul suo corpo. Nonostante la gravità dell’infermità, Fogar negli ultimi anni ha aiutato la raccolta di fondi per l’associazione mielolesi, è stato testimonial per Greenpeace contro la caccia alle balene e ha collaborato a giornali e riviste.


Prima che l’incidente in Turkmenistan trasformasse in modo tanto drammatico la sua vita, Ambrogio Fogar era stato l’emblema dell’uomo moderno di avventura. Nato a Milano nel 1941, fin da giovanissimo Fogar aveva coltivato la passione per le grandi imprese, che lo avrebbe portaro anni dopo a compiere il giro del mondo in barca a vela in solitario, e poi la spedizione a piedi al Polo Nord, in compagnia del suo cane husky Armaduk, diventato assieme a lui un mito per tutti gli appassionati dell’estremo. A soli diciotto anni Fogar attraversò le Alpi con gli sci per ben due volte. Successivamente si dedicò al volo libero, sempre rischiando al massimo, e durante un lancio col paracadute ebbe un grave incidente, da cui uscì miracolosamente indenne.


Il brutto spavento non gli impedì di ottenere il brevetto di pilota per piccoli aerei acrobatici. Dall’aria al mare: nel 1972 Fogar attraversa in solitario l’Atlantico del Nord, per buona parte senza l’uso del timone, e nel gennaio 1973 partecipa alla regata Città del Capo-Rio de Janeiro. Alla fine dello stesso anno compie la grande impresa: il giro del mondo in barca a vela in solitario navigando da Est verso Ovest contro le correnti e il senso dei venti.


Nel 1978, la prima grande tragedia irrompe nella sua vita: la morte dell’amico giornalista Mauro Mancini, finito con lui alla deriva su una zattera per oltre due mesi, dopo che la loro barca, “Surprise”, nel tentativo di circumnavigare l’Antartide, era stata affondata da un’orca ed era naufragata al largo delle isole Falkland. Fogar viene tratto in salvo per coincidenze fortuite, ma l’amico non sopravvive.


Dopo l’impresa al Polo Nord in compagnia del fedele cane Armaduk, Fogar approda in televisione con la trasmissione “Jonathan: dimensione avventura”, e diventa un personaggio caro al grande pubblico. La sua trasmissione, i suoi racconti di avventura e di divulgazione sono seguitissimi: per “Jonathan”, Fogar gira il mondo per sette anni, sempre a caccia di nuove imprese e testimonianze da raccontare. Testimonianze che riporta in una gran quantità di libri e articoli.


Gli manca solo il deserto: dopo la partecipazione a tre edizioni della Parigi-Dakar e a tre Rally dei Faraoni, nel’92 Fogar sceglie di partecipare al raid Parigi-Mosca-Pechino. Qui la sventura lo attende in agguato: la macchina su cui viaggia si capovolge dopo aver urtato un sasso, Fogar si ritrova con la seconda vertebra cervicale spezzata e il midollo spinale tranciato. Da uomo di azione e di imprese estreme, diventa un sopravvissuto per miracolo, immobilizzato in maniera assoluta e permanente.


Ma non si arrenderà mai. Nonostante l’immobilità totale, Fogar trova un’altra impresa in cui credere: resistere alla malattia, resistere ai ricordi. Tanto che, nell’estate del 1997, riesce a compiere un giro d’Italia in barca a vela, su di una sedia a rotelle basculante, in un viaggio battezzato “Operazione Speranza”. Anche questa sua nuova impresa, la più tremenda e difficile della sua vita, diventa testimonianza scritta. “Resisto perché spero un giorno di riprendere a camminare, di alzarmi da questo letto con le mie gambe e di guardare il cielo”, aveva scritto Fogar in uno dei suoi libri. Nel cielo, che negli ultimi anni Ambrogio poteva ammirare solo dipinto sul soffitto della sua camera, c’è persino una stella che gli astronomi gli hanno dedicato e che porta il suo nome: Ambrofogar Minor Planet 25301.