Chi non investe in tecnologia può scomparire dal mercato


Maracay

– «Quando la Cina si sveglierà, il mondo tremerà» queste le parole di Napoleone pronunciate nel 1816 dopo aver letto la relazione dell’ambasciatore inglese Lord Macartney. Due secoli dopo nessuna profezia sembra più azzeccata.


La Cina nel 2003 ha operato un impensabile sorpasso: al primo posto assoluto, con 53 miliardi di dollari di investimenti stranieri contro il 40 miliardi destinati agli Stati Uniti.


La sua ascesa non è senza conseguenze, basti pensare che negli stessi anni gli investimenti in Europa sono crollati del 23 per cento.


Il New York Times ha già ribattezzato il XXI secolo come quello cinese : The Chinese Century.


A spingere avanti la fabbrica del mondo ci pensa soprattutto l’immensa fiducia che la Cina ha in se stessa. Dal 1978 ad oggi il PIL si è quadruplicato, marcando il maggior progresso economico di tutti i tempi. Adesso è al terzo posto tra le potenze esportatrici, dietro Stati Uniti e Germania, ma davanti al Giappone.


Il suo Pil è già superiore all’Inghilterra e all’Italia, ma se viene attualizzato in base al costo della vita, allora si trova al secondo posto al mondo, dietro solo agli Stati Uniti.


Il suo comunismo assomiglia ( come mette in luce Federico Rampini nella sua opera «Il secolo cinese») più ad un autoritarismo di destra, che ad un modello di socialismo maoista, figuriamoci poi quanta distanza c’è col socialismo alla venezuelana.


La Cina ha accettato le regole del gioco, quello capitalista, si è lanciata nella competizione globale senza vittimismi, ha salutato con entusiasmo l’apertura dei mercati. E ora? Siamo invasi da prodotti «made in China», di buona qualitá, mentre gli industriali europei non sanno più che pesci pigliare. Dove sbattere la testa per fronteggiare un competitor cosí potente? Non resta che alzare la voce e strillare : «mettiamo i dazi». Ma dall’altro lato l’impero cinese ribatte : “le regole del gioco le avete fatte voi”. Una versione aggiornata del celebre detto «hai voluto la bicicletta e ora pedala».


In effetti hanno ragione, i cinesi, e questa ragione a noi costa cara: imprese che chiudono, disoccupazione in aumento, ragazzi che emigrano. In Italia, ad esempio, su oltre 600.000 addetti al tessile-abbigliamento un terzo potrebbe essere a rischio, per l’impatto dei prodotti del Sol Levante. Il Bel paese appena dieci anni aveva firmato gli accordi sullo smantellamento delle quote tessili, nell’ambito di una più ampia liberalizzazione del commercio globale. Avremmo dovuto guadagnarci, e invece?


E invece il mappamondo è rotondo, le geografie del potere cambiano in fretta, In sintesi: i figli di Mao hanno alzato la testa.


Hanno ragione a farlo: la liberalizzazione è una nostra invenzione, non loro (da Adam Smith in poi), loro ci hanno solo aggiunto un po’ di confucianesimo e di disciplina. In ogni caso noi qualcosa potremmo fare per reagire, per esempio vendere in Asia le nostre macchine tessili, o sfruttare il mercato del lusso cinese che è in forte crescita.


Intanto un dato è certo: il colosso cinese, i cui abitanti sono il doppio di quelli degli Stati Uniti e d’Europa messi assieme, non ha intenzione di fermarsi, ed al suo fianco tante piccole nazioni in via di sviluppo stanno cercando di formare un altro polo di potere, il polo dei diseredati. Uno degli esempi è il Venezuela, che alla Cina guarda come ad un partner strategico prezioso, oltre che uno sbocco interessante per il proprio petrolio. Non a caso il progetto di orimulsione adesso ha nuovi occhi, a mandorla.


Certo, nonostante la crescita economica, per ogni sincero democratico ( e noi tutti dovremmo esserlo) la Cina rimane un paese col bollino rosso, zero libertá civili, e diritti delle minoranze, e dei lavoratori, minimi. Un’occasione per aprirsi la ebbe, e la mancó. Chi non ricorda Piazza Tienanmen quando svaní il sogno degli studenti che reclamavano libertá e democrazia? Allora ci fu la reazione dello Stato, l’autoritarismo si mostró nel suo aspetto inaspettato: l’invincibilitá. Gli studenti, sconfitti, cambiarono rotta, e rientrarono nei ranghi, nel proprio comunismo dorato! Provate a vederli a distanza di quindici anni: irriconoscibili. Della democrazia non sembrano piú fregarsene, si limitano a seguire il consiglio di Deng Xiaping, che nel 1992 scosse i cinesi dicendo: «arricchirsi è glorioso». Ecce comunismo.


Quei ragazzi adesso sono classe dirigente, viaggiano, si arricchiscono, ci invadono con i loro prodotti, animano i nostri incubi. Il pericolo giallo é per tutti .


Anche per il Venezuela.


Come diversificare, infatti, l’economia quando i prodotti cinesi sono così economici da non permettere alcun tipo di concorrenza, soprattutto fuori dai confini nazionali? E soprattutto come competere contro il colosso cinese?



La sfida Fimaca


Angelo Biondo ce l’ha fatta. E’ fondatore di una delle più grandi imprese metalmeccaniche a Maracay: Fimaca.


Si occupa soprattutto di componenti per l’idraulica, ed esporta all’estero: Arabia Saudita, Stati Uniti, Canada, Colombia, Perù, Colombia, Costa Rica. Proprio chi, come lui, esporta, deve fare i conti con la spietata concorrenza globale, in cui un cliente lo perdi in pochi giorni. L’unica alternativa all’ essere competitivo è… scomparire.


Angelo è un visionario, da sempre. Nel 1998, nonostante il Venezuela stesse in cattive acque, decise di investire due milioni di dollari in una macchinario nuovo fabbricato a Treviso. « Siamo gli unici in America Latina ad averlo» dice con una certa soddisfazione « ma era inevitabile. La concorrenza avanza, e le macchine diventano obsolete subito, qualcosa bisogna pur fare».


Un macchinario che adesso con 7 dipendenti, altamente specializzati, fa meglio il lavoro che prima si faceva con 22 .


Qualcuno potrebbe malignare che si sono persi posti di lavoro, ma a dirla tutta grazie a questa iniziativa Angelo è riuscito a competere con gli altri produttori, e a conservare la propria quota di mercato. Quale era l’altra opzione: smantellare tutto, e investire i soldi a Miami?


Questo non l’avrebbe mai fatto. Per amore del Venezuela innanzitutto.Qui, come molti italiani, ha messo radici, ha investito i propri soldi, ha preparato il futuro per i propri figli. Ha iniziato come apprendista in una petroliera, e man mano si è reso indipendente. «Qualcuno pensa che io sia pazzo, perché ho investito tanto in questo paese. Potevo vivere tranquillo con i risparmi di una vita, ma non l’ho fatto, adesso nell’impresa lavorano tutti e tre i miei figli, e sono soddisfatti».


Adesso la Fimanca conta più di centocinquanta dipendenti e la soddisfazione di essere un modello per tutte le imprese venezuelane, soprattutto quelle che ad esportare proprio non ci riescono. « Bisogna aggiornarsi» continua lui« cercare altri sbocchi sul mercato, ma soprattutto avere fiducia, anche quando le cose non vanno bene. La concorrenza cinese è veramente tanta, i loro prodotti sono economicissimi, il costo del lavoro per loro è molto basso».


Il cammino è obbligato per tutti : puntare sulla tecnologia, investire, cercare sbocchi sul mercato, sfruttare le opportunità dell’integrazione regionale : il patto andino, per esempio, con cui si esporta pagando un’imposta solo dell’1%.


E perchè no: allearsi con qualche impresa italiana, per abbassare i costi e provare a lanciarsi al meglio nel sempre crescente mercato latinoamericano.