Quei maledetti anni cinquanta


Caracas

-Domani, alle tre di pomeriggio, al Museo Cruz Diez, il professore Antonio Nazzaro e l’attrice Isabel Dalence animeranno la sala trascinando gli ascoltatori in un viaggio a ritroso. Già nel titolo – letteratura ed arti figurative, cosí lontane cosí vicine – c’è l’annuncio di un impegno preciso e non facile: comparare due mondi, arte e letteratura, che vivono, ed hanno vissuto, le stesse passioni, gli stessi dilemmi, le stesse contraddizioni, ergo vicini, per rimanere poi definitivamente (perennemente) separati da un particolare strutturale:


«La letteratura ha un limite– dice il professore- che l’arte non ha: quello della parola. L’arte sfonda le tele, passa da una a due a tre dimensioni, con l’arte visuale rompe i concetti di dimensione. La letteratura è legata invece alla parola, anche quando è letteratura surrealista, anche nei suoi tentativi piú estremi. L’arte figurativa invece può rompere qualsiasi tipo di schema, fino a non figurare niente».


Ma come confessa il professor Nazzaro, questo dualismo non competitivo è solo un pretesto, perchè il vero tema della conferenza bisognerà cercarlo tornando all’ Italia del dopoguerra:


«Ci interessa far rivivere un momento storico particolare, quello che va dal dopoguerra al ’68, interpretato soprattutto attraverso i suoi intellettuali, i suoi artisti, entrati in crisi dopo il fascimo, in bilico tra la partecipazione e l’isolamento , o meglio l’intimismo. L’idea è di creare un climax- sottolinea il professore– intervallando il discorso con la lettura dei testi».


E’un’Italia di «pensatori» in conflitto, quella del dopoguerra, tentennanti nel dare la giusta misura al proprio passato, per le troppe concessioni, e i troppi silenzi verso il fascismo.


«Molti vedono il suicidio di Cesare Pavese- sottolinea Nazzaro- come una forma maniatico-depressiva. In verità Pavese aveva un grande senso di colpa rispetto al fascismo, per non aver preso una posizione chiara. Aveva raggiunto la fama, ma dopo aver vinto il premio Strega dice ‘basta non scriverò più e poco dopo si suicida».


Ma prima del boom economico, e quindi della trasformazione dell’Italia, un altro conflitto affligge l’intellettuale di sinistra. E’ sempre Naz-zaro a spiegarlo:


«Molti escono dalla guerra con gli ideali della militanza, quindi con l’idea di cambiare il mondo, e immediatamente inizia il contrasto col partito comunista che, invece, non permette nessun cambiamento. La divisione si fa grande, si fa scontro, basti pensare a quello acceso tra Vittorini e Togliatti».


Antonio Nazzaro è un delizioso conversatore, parla, ascolta e quando interviene dal (pro)fondo delle sue parole emerge un’appartenenza: figlio di una generazione, che «in questo sitema non ci si ritrova piú», non a caso tra i suoi idoli c’è Andrea Pazienza, il fumettista che


«scappava quando gli offrivano un contratto milionario» . Ex giornalista della Stampa di Torino, laureato in filologia romanza, è un italiano sui generis. Ha vissuto in Messico, ha fatto la guida in un museo maya andando a lavoro a piedi scalzi, è passato per Cuba, e adesso è in pianta stabile a Caracas. Parla volentieri dei concerti per l’Africa, di Pasolini, dei giovani d’oggi, e prima di concludere ci rivela l’incipit della conferenza: «Inizieremo con le parole pronunciate da Montale per il premio nobel: la poesia è come l’aristocrazia: inutile, ma proprio in questo sta la sua bellezza».