Sabana Grande, da mito a simbolo di decadenza

Caracas– “Sabana Grande era una festa”. Lo dicono tutti,  con una forza che non riesci a contenere. Una frase lanciata  da Fausto Masò, in un libro interamente  dedicato a questo unico boulevard di Caracas; lo dice Paolo, italiano che nonostante tutto a Sabana Grande ci ha investito i propri risparmi, aprendo un piccolo ristorante; lo dicono gli italiani che si ritrovano alla Tinaja, e passano poi al Gran Caffè per un espresso; lo dice il responsabile del Libro Italiano, da cinquanta anni lì, immobile a fissare gli occhi dei lettori.


Il boulevard per eccellenza, l’unico grande boulevard del Venezuela, non c’è più, e anche il nome, boulevard, spinge ora ad un sorriso triste e malinconico. Lo chiamavano così perché forse, al momento di decidere se trasformarlo da via trafficata a via pedonale, negli occhi avevano Parigi. E la Francia, quella stessa che aveva accolto gli artisti, gli studenti e i letterati fuoriusciti da tutto il mondo, per cercare lì riparo, e ritrovarne un certo clima da Belle Epoque, continua sotterranea anche nei momenti peggiori.


E quanti venezuelani se ne andarono a Parigi: Fernando Paez Castillo, Sallustio Gonzàles Rincon, poeti, o Jesùs Soto che lì decretò il suo successo.


Parigi sì, ma anche Corso Vittorio Veneto, per quella folla di italiani che sbarcavano ai tropici, e nei Caffè di Sabana Grande incrociavano i propri connazionali, tutti affascinati da una città che negli anni ’50, ’60 e’70 sembrava un vero paradiso terrestre. Un paradiso perduto, ritrovato fuggendo da un’Italia povera, inconsapevolmente all’alba della propria rinascita, del proprio boom economico.


Quante storie scorrono lungo quel corso che dalla piazza di Chacaito arriva fino a Plaza Venezuela. Una lunga camminata per le famiglie “della domenica”, con i migliori negozi di Caracas, i migliori gelati, e quella strana convinzione detta e non detta: assieme al petrolio era arrivata la modernità, il benessere, la felicità, e le luci. E che luci quelle di Sabana Grande! Quelle notti erano la Notte, senza ulteriori aggettivi. Nelle traverse, nei Caffè, nelle taverne trovavi di tutto: nani, ballerine, uomini d’affari, giovani scapigliati, scultori, rivoluzionari, saltimbanchi, poeti. Il fremito di una città intera che brindava con champagne francese perché credeva nei sogni, in quella modernità di cui Parigi era stata l’emblema, con la sua torre di ferro, e di cui Caracas si sentiva degna erede, con il suo petrolio.


Era davvero così Sabana Grande, come si racconta, come si tramanda? Storie strane che passavano di bocca in bocca tra fiumi di birra, e la certezza che nessuno si sarebbe meravigliato se un giorno o l’altro nel bel mezzo di Caracas fossero passati Modigliani e Picasso. Assieme. Litigando. Come sempre. Dal passato. Ma Parigi del 1889 era forse come Caracas di vent’anni fa? Probabilmente sì. Un secolo fa Parigi celebrava il centenario della rivoluzione francese con la grande Esposizione Mondiale, il cui simbolo era la torre Eiffel. In quegli anni  si apriva un nuovo locale, il Moulin Rouge, dove si riuniva la Parigi libertina, fatta di nani, puttane e ballerine.


E un Moulin Rouge, giochi del destino, ce l’ha anche Sabana Grande (nella Solano), e da poco ha ricominciato a riaccendere le luci. Adesso è un locale per giovani, per ragazzi, ma è soprattutto l’orma incancellabile di ciò che Caracas ha perso, forse per sempre.


Dopo il mito, infatti, è arrivato il nulla. Negli anni ’90 Sabana Grande è diventato, suo malgrado, un simbolo negativo. Simbolo di vent’anni di decadenza venezuelana, latinoamericana.


Delinquenza, sporcizia, notti senza alcuna illuminazione. Una tragedia senza colpevoli. Perchè colpevoli non sono quelli che tutti additano come tali. Quelli che scendono dal barrio, per guadagnarsi il pane, vittime loro, anche. Loro che si alzano al mattino, si caricano sulle spalle la propria bancarella (spesso presa in affitto),  montano, e nella notte cacciano via tutto, nascondendo la merce nei garage e negli edifici mai terminati. Sabana Grande, mito ammazzato e insanguinato, simbolo di decadenza, adesso è un luogo diverso, e molto di quello che c’era prima si è trasferito nei centri commerciali: i negozi chic, il passeggio della domenica, la classe medio alta, che o è rimasta aggrappata all’“alta” o è scivolata verso il basso.


E’ rimasto qualcosina nelle vie circostanti, è rimasto il Manì, luogo di battesimo della salsa venezuelana, ha aperto il Moulin Rouge, e tutte “las tascas”, a qualsiasi ora, nonostante la paura, sono sempre piene. Il resto si è spostato a Las Mercedes, ad Altamira.


Sabana Grande è infine una lezione per chi abbia voglia di ascoltarla. Una lezione all’area aperta di economia politica,  quella dell’ultimo ventennio: inflazione, deterioramento dei salari, scomparsa dei professionisti, classe media in dissoluzione, debolezza del tessuto industriale. Sabana Grande è diventato qualcos’altro, qualcosa che scandalizza, un luogo invaso a ricordarci che quando si cresce o si cresce tutti o chi rimane indietro “invade”. Un precetto morale per i politici del futuro. Adesso la musica ancora c’è, ma è quella delle casse che sbottano a tutto volume Raegetton, e agli angoli nella notte si gioca dominò, mentre i topi attraversano la strada, e qualcuno si nasconde per rubare. Forse c’è poesia anche adesso,  ed anche in questo: nei topi, nella sporcizia, nella spazzatura, nei rumori assordanti. Poesia forse, ma non bellezza. Sabana Grande è brutta, bruttissima, orrenda, desolata.