Vecchio, italiano, in prigione in Venezuela

CARACAS – Marcire in un carcere venezuelano a 77 anni. E’ quello che, senza giri di parole, sta succedendo a Osvaldo Capini, un italiano che da un anno e mezzo è rinchiuso nel carcere di Los Teques. Nel febbraio dello scorso anno venne fermato all’aeroporto di Maiquetia con dodici chili di cocaina e arrestato. Processato per direttissima, la condanna è stata esemplare: dieci anni da scontare in una prigione dello stato. Da allora, è trascorso un anno e mezzo, Capini non ha ricevuto visite dei parenti che vivono in Italia e le sue condizioni di salute appaiono piuttosto gravi. Prima del suo folle viaggio in Venezuela i medici gli avevano individuato un enfisema polmonare, oltre a problemi alla prostata e altri acciacchi dovuti all’età. A quanto riferiscono gli altri detenuti, Capini è il detenuto più anziano del penitenziario. Anche per la legge venezuelana alla sua età avrebbe diritto a un trattamento diverso dalla detenzione in carcere, ma nei fatti questo non sta accadendo.
La sua storia viene resa pubblica da padre Leonardo Grosso, un prete italiano che da sedici anni opera come missionario in Sud America. Per conto dell’organizzazione non governativa Icaro, in collaborazione e su incarico del Consolato generale d’Italia, fa regolarmente visita agli italiani che si trovano nelle carceri venezuelane. Porta loro cibo e conforto e li aiuta nel relazionarsi con la realtà del paese. Oltre a lui, a fare visita ai detenuti, è il viceconsole onorario Leonardo Mascitti, che in molti casi mantiene anche i contatti con i parenti.


Venezuela,
record di italiani

Secondo i dati forniti dal Ministero per gli Affari Esteri, il Venezuela è il paese sudamericano che conta il maggior numero di detenuti italiani. Nell’annuario statistico del ministero, riferito al 2004, risultavano detenuti in questo paese 47 italiani, 40 dei quali già condannati e 7 in attesa di giudizio o estradizione. Per avere un termine di paragone, in Brasile, paese con sette volte la popolazione del Venezuela, ne risultavano detenuti 38. In Argentina 27, negli altri paesi numeri molto minori. Perché questa particolarità del Venezuela?
“Negli ultimi anni – spiega padre Leonardo – il Venezuela è diventato area di transito per la droga che arriva dai paesi produttori, in primo luogo la Colombia, ed è diretta in Europa o Nord America.  Molti, spesso senza alcun precedente penale o legami col mondo delle tossicodipendenze, vengono illusi dalla possibilità di portare con sé discreti quantitativi di droga e di farla franca”.
I controlli all’aeroporto di Maiquetia si sono fatti via via più serrati, così è frequente che stranieri, italiani e di altri paesi europei, vengano fermati e condotti in prigione. I più fortunati vengono processati e condannati in tempi brevi, la maggioranza, tuttavia, rimane in carcere molti mesi prima di conoscere la propria condanna. Quello che complica la vita di queste persone, e di chi vuole tenere contatti con loro, è la condizione delle carceri venezuelane, “tra le peggiori del Sud America”, dice esplicitamente padre Grosso. Anche il rapporto con le autorità è difficile.
In linea di principio, le autorità di pubblica sicurezza dovrebbero comunicare al nostro consolato ogni arresto di connazionali, ma nei fatti questo accade di rado. “Ogni volta che mi reco in prigione – spiega il sacerdote –, chiedo se ci sono nuovi arrivi, è così che vengo a sapere di nuovi arresti e sono io poi a comunicare al Consolato i nominativi. E’ successo anche con Capini: un giorno sono entrato nel carcere di Los Teques e mi sono trovato di fronte questo anziano che non conosceva una parola di spagnolo, privato di tutto, dai documenti agli indumenti, perché all’arresto la polizia sequestra ogni cosa in possesso dell’arrestato”.


Un calvario come prigione
Il carcere di Los Teques si trova in cima a un montagnola che sovrasta la città. Per arrivarci si percorre una stretta e ripida stradina costeggiata da case dalla struttura semplice, costruite senza molte pretese, un tipico barrio di ogni grande città venezuelana. Esternamente l’edificio appare cadente, quasi in stato di abbandono. Nei pressi dell’ingresso, una fila di macchine sfasciate, alcune senza ruote o mancati delle portiere, rendono il paesaggio ancora più degradato. Prima dell’arrivo abbiamo caricato l’auto con sacchetti pieni di cibarie: pasta, caffè, biscotti e altri alimenti basici. “Purtroppo, spesso capita che non mi facciano entrare – dice padre Leonardo – perché ci sono ispezioni in corso, oppure sparatorie, o scioperi dei detenuti, così devo tornare indietro con tutti i sacchetti”.
E’ quanto succede in questa occasione. Un soldato si avvicina e spiega che non si può salire con l’auto, non si può nemmeno entrare perché la mattina stessa è cominciato uno sciopero della fame. Padre Leonardo avvia una trattativa con il soldato, che ci fa passare, poi parla anche con le persone in guardiola, alcune in divisa altre no, e anche qua otteniamo un via libera parziale: si può entrare ma senza cibarie.
Il cancello della prigione è chiuso da un semplice lucchetto. L’uomo seduto dall’altra parte, con un fucile a tracolla e una copia di Ultimas Noticias in mano, non ha la divisa, indossa una giacchetta marrone e un paio di jeans. Sembra un autista di carrito, invece è una guardia penitenziaria.
Entriamo nel carcere e ci troviamo al centro di  un lungo corridoio su cui si aprono le porte degli uffici, dell’ambulatorio, delle cucine. Le “celle”, che poi sono dei padiglioni senza divisori, stanno al piano superiore, vi si accede da una scala posta di fronte all’ingresso. In realtà, questa sembra terra di tutti e di nessuno, visto che è frequentata da molte persone, tra cui gli stessi detenuti che vi si muovono con una certa libertà. Dall’aspetto esteriore è difficile distinguere i detenuti dalle guardie, i parenti in visita dagli impiegati amministrativi.
“Di solito incontro qui i nostri connazionali – dice padre Leonardo – lo faccio nel corridoio così da essere alla vista di tutti e delle guardie soprattutto”. Mi fa intendere che le guardie in realtà non badano a quello che accade nell’area dei detenuti, lì vige la legge del carcere, c’è un’organizzazione interna che controlla tutto, con la violenza. Si sa, perché più volte è stato pubblicamente denunciato, che dentro le carceri venezuelane circolano armi e droga. Il tasso di violenza è altissimo: secondo i dati raccolti dall’ong Observatorio Venezolano de Prisones, nei primi tre mesi del 2006 nelle prigioni del paese sono morti 77 detenuti, mentre 195 sono rimasti feriti in vario modo. Los Teques ha contato i suoi 3 morti e 12 feriti, di cui cinque per arma da fuoco. Qui è detenuta la più folta comunità di stranieri, gli italiani sono una ventina, ma i più numerosi sono gli spagnoli e gli olandesi.


L’incontro con Osvaldo
Padre Leonardo ha deciso di entrare sapendo che in un modo o nell’altro avrebbe avuto la possibilità di incontrare qualcuno dei suoi “assistiti”.  I secondini gli dicono che in cucina c’è un italiano. E’ A., un uomo di 60 anni che è qui da quattro mesi e da poco ha ottenuto di poter cucinare per le guardie e dormire sul pavimento della cucina. I locali, anche le stanze della guardie, sono in condizioni penose: pareti scrostate, macchie di umidità ad altezza uomo, infissi divelti o completamente marciti. Da quanto racconta A., questa situazione è comunque un paradiso rispetto a quello che c’è di sopra. “La si dorme ammassati tutti per terra, sei continuamente sotto pressione e minaccia”. Abbraccia padre Leonardo e me come fossimo parenti stretti che non vede da una vita.
Ritorniamo con lui verso il centro del corridoio. Padre Leonardo scorge una figura conosciuta, seduta sulla panca fuori dall’ambulatorio. E’ Osvaldo Capini. Il prete lo chiama e lui ci si fa incontro, zoppicando. E’ un uomo minuto, le spalle curve e secche esprimono tutto il suo disagio, il viso è scavato oltre misura, gli occhi sono piccoli, quasi scompaiono nella geometria del viso. Non dice una parola, abbassa la testa e comincia a piangere, sommessamente. Indossa una camicia sgualcita e un paio di pantaloni bisunti, ai piedi delle ciabatte infradito. “Non ne posso più”, dice riprendendosi un po’. “Qua devi pagare per tutto, il cibo fa schifo e le medicine che ogni tanto mi danno non fanno niente”. Gli chiedo dove dorme. “Dietro una tenda, nel corridoio”, risponde. “Ho la prostata che mi fa male e il problema è che di notte non posso andare al bagno, il pavimento è pieno di gente che dorme, se per sbaglio tocchi qualcuno è finita”. Delle ragioni della sua detenzione non vuole parlare. “Mi hanno messo in mezzo, imbrogliato”, dice soltanto, con un filo di voe.
Padre Leonardo lo conforta, ma Osvaldo non si dà animo. Il giudice gli ha rifiutato gli arresti domiciliari presso un’associazione umanitaria venezuelana. La sua speranza ora è in una misura umanitaria che lo faccia uscire per ragioni di salute e di età. Quando? E’ una domanda senza risposta, per ora.


Il console Mirta Gentile spiega la situazione di Osvaldo Capini


Misura umanitaria,
una soluzione possibile
CARACAS – Il 24 dicembre 2005 quattro detenuti italiani sono stati rilasciati dalle autorità venezuelane per ragioni umanitarie. Sul piano giuridico, hanno ricevuto un decreto di espulsione dal paese che ha cancellato la pena residua. Questa è una delle modalità che la legge venezuelana prevede per il trattamento dei prigionieri stranieri. In applicazione della convenzione di Strasburgo, è possibile l’estradizione nel paese di origine, ma solo per chi ha già assolto metà della pena. La terza possibilità è ottenere la semilibertà, che consente al detenuto di vivere e lavorare fuori dal carcere durante il giorno o durante la settimana fino all’esaurimento della pena. Il caso di Osvaldo Capini è peculiare, perchè anche per la legge venezuelana la sua avanzata età dovrebbe automaticamente escluderlo dal carcere, riservandogli gli arresti domiciliari.
“Come Consolato generale non abbiamo competenza sulla situazione giudiziaria degli italiani detenuti – spiega il console Mirta Gentile –. Li aiutiamo in quanto connazionali indigenti, passandogli un sussidio, ma non possiamo, ripeto, intercedere con le autorità venezuelane per seguire la loro vicenda giudiziaria. Tuttavia, su richiesta delle avvocatesse che seguono il caso di Capini, ho personalmente scritto una lettera al giudice competente facendogli presente che c’era un’associazione umanitaria venezuelana, individuata dai legali, disponibile ad accoglierlo. Il giudice non ha preso in considerazione questa ipotesi. Ora l’unica via è la misura umanitaria, ma devono essere gli avvocati a muoversi per primi. Noi non possiamo sollecitare le autorità venezuelane”.