Il consolato non garantisce, il vecchio detenuto rimane in carcere

LOS TEQUES – Nella vita professionale di ogni avvocato ci sono storie singolari e spesso drammatiche. Storie di vita che chiedono di essere “rimesse in carreggiata” dopo una sbandata, come quelle dei detenuti. Per Nefertitis Prial e Violeta Tielma, avvocatesse con studio in comune a Los Teques, la storia di Osvaldo Capini rappresenta qualcosa di speciale. Non solo perché si tratta di un detenuto straniero, italiano per la precisione, ma anche perché ha un’età, 77 anni, in cui anche per la legge venezolana non dovrebbe stare in carcere e invece da un anno e mezzo è rinchiuso nel penitenziario di Los Teques in pessime condizioni di salute.


A rendere speciale la storia di Capini per le due avvocatesse è anche il fatto che per assisterlo non prendono nulla. Da quando, nell’aprile del 2005, hanno comiciato ad occuparsi della sua situazione e di quella di un altro detenuto italiano, non hanno ricevuto compensi per il loro lavoro e nemmeno, così dichiarano, li hanno richiesti.


“Ci occupiamo di queste due persone per ragioni umanitarie”, spiega Violeta Tielma, “ogni anno ci prendiamo in carico un paio di casi gratuitamente, su indicazione del Collegio degli avvocati. Si tratta di persone che non hanno risorse economiche, che hanno gravi problemi di salute o non hanno parenti che si occupano di loro. Il signor Capini è in questa situazione, aggravata dal fatto che è anziano e soffre di polmonite cronica e varie ulcere stomacali. E le condizioni delle carceri qui in Venezuela sono terribili”.


Sul tavolo è posato un faldone di documenti, sono le “carte” del caso in oggetto. Capini è stato arrestato nel febbraio del 2005 all’aeroporto di Maiquetía dopo che nella sua valigia erano stati trovati 12 chili e mezzo di “polvere bianca”, all’analisi rivelatasi cocaina di ottima qualità. Al giudice ha dichiarato che credeva che nella valigia datagli in Perù da un conoscente ci fossero pietre preziose. Processato per direttissima il giorno seguente all’arresto, la condanna è stata di 10 anni, pena minima in Venezuela per il traffico di stupefacenti.


“Il giudice non ha tenuto conto dell’età perché l’imputato è stato colto in flagrante”, spiega l’avvocato Prial. “E’ un’eccezione alla regola, ma c’è anche il fatto che per non andare in carcere deve esserci una sistemazione alternativa, che in quel momento non c’era. Comunque, io come avvocato avrei detto chiaramente che questo signore ha più di 70 anni e per la legge non può andare in prigione e quindi va rimpatriato, cioé espulso, ma in quel momento non avevo ancora cominciato ad occuparmi di lui”.


Da allora è passato un anno e mezzo e sebbene sia stata nel frattempo richiesta al tribunale una “misura umanitaria”, cioè il rimpatrio, non c’è stata alcuna sentenza. Perché?


“Difficile dirlo”, risponde l’avvocatessa Prial. “In questo caso varie udienze sono state rinviate perché mancava il giudice, l’accusa o l’interprete. La mia impressione è che ora i giudici penali sembrino come impauriti nel sentenziare in materia di droga, perché molti loro colleghi sono stati destituiti per cose che hanno fatto o non hanno fatto. Ma l’ostacolo maggiore per risolvere casi come questi è la mancanza di supporto della autorità del paese di origine. A un certo punto noi avevamo trovato un’associazione disponibile ad accogliere il signor Capini in attesa del rimpatrio, ma senza la garanzia del consolato non poteva essere accolto”.


L’avvocato mi mostra una lettera inviata dal console Mirta Gentile. Si spiega che il consolato non può occuparsi delle questioni giudiziarie dei detenuti italiani ma solo fornire loro qualche forma di assistenza in quanto “indigenti”. Cionostante, il console esprimeva il totale appoggio all’iniziativa delle avvocatesse. Un appoggio formale. Recentemente il console generale Stefano Pontesilli ha affermato che rispetto “al drammatico caso del signor Capini”, il consolato si assumerà tutte le spese del rimpatrio “se il tribunale decreterà l’espulsione del detenuto”.


Insomma, il consolato non si intromette nel destino giudiziario di connazionali detenuti. La questione sembra di principio, ma ha delle conseguenze pratiche evidenti e degli effetti talvolta che sfiorano il surreale. Come definire altrimenti il racconto dell’avvocatessa Prial riferito alla ricerca di un interprete? Va detto che Capini quando è stato arrestato non sapeva una parola di spagnolo e ancora oggi capisce molto poco questa lingua.


“All’inizio abbiamo contattato il consolato per sapere se potevamo almeno avere un interprete e chiedevamo delle informazioni sulla famiglia del detenuto”, racconta l’avvocatessa Prial, “ma siamo state trattate malissimo da una funzionaria, Margherita Melillo, che ci ha fatto aspettare per quattro ore e poi ci ha rivolto delle brutte parole, facendoci quasi sentire delle delinquenti perché ci occupavamo di persone che, secondo lei, sono una vergogna per l’Italia! Successivamente, il viceconsole di Los Teques, Mascitti, e lo stesso console Gentile sono state invece disponibili e assai cortesi con noi. Mascitti, in particolare, con premura ci ha indicato una signora che ci è stata molto utile per parlare col detenuto, ma per tre volte siamo andati in udienza con un interprete trovato e pagato da noi”.


Prial mi mostra il rapporto di un’udienza dove appare citato Luigi Rivolta, un signore di origine italiana che ha fatto da interprete in aula. “Per noi andare fino a La Guaira, dove si trova il tribunale competente, è un viaggio lungo e sapendo che alcune udienze erano saltate per mancanza dell’interprete, un giorno per evitare di perdere l’ennesima udienza abbiamo fermato di fronte al tribunale un passante che aveva l’aspetto di italiano. Ci ha confermato di essere italiano e gli abbiamo chiesto se era disponibile a fare da interprete. Ha fatto un buon lavoro e lo abbiamo pagato con soldi di tasca nostra. Il signor Rivolta ci ha aiutato in altre due occasioni, siamo andate a cercarlo a casa, abita ad un isolato dal tribunale. Il consolato ci aveva dato il nome di un interprete, ma voleva 640.000 Bolivares all’ora!”.


Ora Osvaldo Capini attende il responso della giustizia venezolana sulla richiesta di “misura umanitaria” inoltrata più volte negli scorsi mesi. Secondo le avvocatesse Prial e Tielma la dichiarazione del console generale, inviata solo a metà dello scorso mese, è un piccolo passo in avanti che potrebbe influenzare il giudizio. Forse, però, non è sufficiente per risolvere un caso “umano” che appare semplice eppure fino ad ora è rimasto inspiegabilmente ingarbugliato.