Il poeta Milo de Angelis al Teresa Carreño

CARACAS- In questi giorni per Caracas, e tutto il Venezuela, si sente la parola sommessa o altisonante dei poeti partecipanti al IV Festival mondiale della poesia che ha preso il via ieri e continuerà fino a domenica 27 maggio. Tra i sei poeti chiamati a rappresentare la poesia europea c’è anche Milo De Angelis, uno tra gli autori contemporanei di maggior spessore nel panorama italiano.


“La poesia è l’unica forma che mi permette di esprimermi pienamente, e così ho iniziato giovanissimo a scrivere. Il mio primo libro ‘Somiglianze’ è stato pubblicato nel 1976” dice Milo de Angelis.


L’accoglienza ricevuta a Caracas lo sorprende: ”È commovente l’impegno e l’amore che c’è qui per la poesia. È la prima volta, nei miei viaggi, che mi succede”.


De Angelis reciterà le proprie opere oggi alle 18, 30 nella Sala Ríos Reyna del Teatro Teresa Carreño e domani sempre alle 18,30 nella sala José Félix Ribas.


Come sono arrivati i tuoi versi dall’altra parte dell’Oceano? “Tutto è iniziato 8 anni fa quando ho conosciuto Erica Reginato (poetessa italo venezolana e traduttrice, per la casa editrice Monteavila, dei maggiori poeti contemporanei italiani ndr.) poi attraverso di lei ho conosciuto Santo López (poeta venezolano) ed è subito nata un empatia che ha portato non solo alla mia partecipazione al Festival, ma anche la traduzione delle mie opere in un’antologia che ripercorre la mia produzione poetica dal mio ultimo libro fino al primo”.


L’estro di Milo cresce nell’unica metropoli italiana possibile: Milano e la sua periferia. Ma anche Caracas lo affascina: “Mi sono innamorato di questa città, lo confesso così candidamente. C’è questo vortice d’energia che mi porta, senza che nemmeno io scelga una direzione. Ci pensa lei, la città, a muovermi. E’ paradossalmente una città riposante in cui l’energia  è capace, per chi la ama, di condurlo per le sue strade”.


La poesia italiana sta vivendo un momento di fervore?  “La poesia- continua Milo- per sua vocazione è sempre qualcosa di nascosto, di sotterraneo. E’ spesso postuma. Detto questo è un buon periodo in Italia. Finita l’epoca delle ideologie ci ritroviamo con una poesia che non si appoggia più a niente, né a una religione  nè a una fede politica, quindi vive lì, nella sua nudità”.


Nelle composizioni di De Angelis occupa uno spazio fondamentale il tema del ritorno: “È essenziale, io scrivo sempre perché chiamato dai luoghi che ho conosciuto e che ho amato. Ad un certo punto si fanno imperiosi e mi chiamano a sé, mi costringono a  tornare lì e allora devo trovare il termine giusto, spesso sepolto sotto parole convenzionali. Mi costringono, i luoghi, con il loro richiamo, a un ritorno preciso e poetico che li nomini nella maniera più esatta”.


L’autore milanese ci confessa che la sua vita si divide tra le sue opere e l’impegno come professore di lettere all’interno del carcere di massima sicurezza Opera di Milano: “Il carcere è un luogo dove ho scelto di andare, è una sorta di vocazione. È un posto per sua natura carico di dramma, di purificazione, di dolore e d’attesa. Quindi un luogo che si presta all’espressione poetica, forse ce n’è persino troppa. Non si tratta di portare la buona novella della poesia in carcere ma piuttosto d’essere severi, di portare questo scrivere indifferenziato del carcere a una precisione, a una disciplina, a una storicità. In ogni caso nel carcere mi sento come a casa mia: un luogo spoglio, essenziale, di bisogni primari come quelli del poeta”.


La parola è un elemento fondamentale, anche nel momento più lirico le parole sono frutto non di una folgorazione ma di una ricerca: “La parola ha un valore unico insostituibile, deve essere soppesata, deve essere quella e non un’altra. E come se facesse un lungo tragitto prima di giungere alle labbra o sullo schermo di un computer e deve portare di questo percorso tutto il peso e la sofferenza. Perché arrivare alla luce vuol dire attraversare le sabbie mobili della propria malattia, della propria paralisi, dei propri blocchi. Quando scaturisce deve avere tutta l’energia che ha tenuto dentro di sé per tanto tempo. Quindi è una parola carica d’attesa, sempre faticosamente condotta a respirare, ma sepolta per tanto tempo nel buio del proprio silenzio. Impregnata di silenzio ne porta le tracce, la ferita ma anche la luce e il sangue che l’ha tenuta in vita”.


 


Antonio Nazzaro


 


 


Contare i secondi…


 


Contare i secondi, i vagoni dell’Eurostar, vederti


scendere dal numero nove, il carrello, il sorriso


Il batticuore, la notizia, la grande notizia.


Questo è avvenuto, nel 1990. È avvenuto, certamente


è avvenuto. E prima ancora, il tuffo nel Ticino,


mentre il pallone scompariva. È avvenuto.


Abbiamo visto l’aperto e il nascosto di un attimo.


Le fate tornavano negli alloggi popolari, l’uragano


riempiva un cielo allucinato. Ogni cosa era lì,


deserta e piena, per noi che attendiamo.


(dal libro:Tema dell’addio, Mondadori, 2005)