Il maestro José Antonio Abreu nominato Grande Ufficiale


CARACAS-“Meraviglioso! In trenta anni ha tirato su 250 mila ragazzi anche dai barrios, dando strumenti musicali e la possibilità di studiare, di farsi una ragione di vita. Ora questi giovani sono entusiasti, sono felicissimi di far musica”. Con queste parole, sulle nostre colonne, Claudio Abbado magnificava il miracolo di José Antonio Abreu, fondatore del sistema di orchestre giovanili e infantili del Venezuela.


Un sistema il cui risultato più nobile è Gustavo Dudamel, acclamato nei migliori teatri al mondo, ma ancor più nobile è la miriade di ragazzi che in ogni angolo del Venezuela suonando gli strumenti hanno dato una loro personale risposta alla miseria, alla povertà  all’incultura. Sembre Abbado ci raccontava un aneddoto per svelarci il miracolo: “Abreu ha le idee molto chiare, c’è un esempio, nell’orchestra infantile ci sono 9 trombe, ti chiedi, cosa ci fanno 9 trombe, così tante?  Tre suonano tutto, tre ogni tanto, e tre piccolini che dai colleghi hanno imparato a suonare una nota, suonano quell’unica nota, è come una catena. Loro sono felici come se avessero fatto tutto il concerto, questa cosa non esiste da nessuna parte”.


Un vero miracolo, ripetiamo, capace di scofiggere tutti i pregiudizi tropicali, che vorrebbero i Caraibi troppo indisciplinati per i tempi della musica classica. La terra dei tambores ha dimostrato non solo di essere capace di interpretare Mozart e Wagner con teutonica perfezione, ma di potervi aggiungere quell’entusiasmo che nei celeberrimi teatri europei è difficile trovare, ammorbati in poltrone troppo comode.


Questa è la prima grande differenza. In Venezuela il pubblico è giovane, i teatri riflettono i luccichii di jeans e magliette. Alla Scala il concerto è la ripetizione di un gesto tradizionale, serve a rassicurare la buona borghesia milanese nelle sue certezze: finché ci sarà la Scala niente può cambiare. In Venezuela invece la tradizione operistica non c’è, allora da rituale la musica classica diventa  vibrazione, scarica, fremito.  La follia di Bethoven, il più grande rivoluzionario del suo tempo, nei teatri europei viene spesso essiccata nel  rito, nello sfoggio di abiti eleganti e volti stirati,  quel rito che paradossalmente il compositore tedesco ha cercato di distruggere segnando il passaggio dal classicismo al romanticismo, in un’Europa tra rivoluzione napoleonica e restaurazione. Beethoven voleva rompere schemi, paradigmi, e ora si trova mummificato come oggetto di culto della buona borghesia.


Il Venezuela invece ha lo spirito giusto per ridare al romanticismo musicale l’esatta collocazione: la musica sfugge, irrompe, ti percorre, ti possiede, ma mai può accettare di annoiarti.


Se ne accorsero i ragazzi del Giardino Armonico, gruppo musicale che due anni fa arrivò a Caracas per essere travolto dagli applausi. La loro era musica barocca, di nicchia. Il pubblico ne percepì le vibrazioni, e li riempì di applausi. La gente li fermava chiedeva loro consigli, si complimentava. Un semplice flauto dolce sopranino, strumento introvabile nei concerti, aveva scatenato l’entusiasmo della sala.


Ma da dove viene tanto entusiasmo? La risposta ha un nome, il maestro Abreu. L’ambasciatore Carante, in occasione della 61 anniversario della Repubblica italiana, lo ha condecorato con l’Ordine Della Stella Della Solidarietà nel grado di Grande Ufficiale, il grado più alto (prima vengono Commendatore e Cavaliere). “La concessione è un dovuto riconoscimento allo straordinario lavoro svolto per la diffusione della musica e dei talenti venezolani e per l’elevato interscambio culturale con l’Italia grazie alle molte iniziative realizzate”. Un riconoscimento meritatissimo.


Abreu, con il suo volto deciso, ha ringraziato coloro che hanno reso possibile un miracolo per cui oltre alla passione c’è stato bisogno di grande capacità organizzativa. Abreu, raffinato economista, ha raggiunto la sintesi perfetta tra talento e pragmatismo. Anche noi, allora, ci sommiamo agli auguri al maestro per questo meritatissimo riconoscimento.


 


 


Film


E se domani…


 


E’ stato inaugurato giovedì la rassegna di cinema italiano. Tra i film più acclamati c’è la italianissima commedia “E se domani”.


Mimì ha 34 anni e da quando ne ha 12 è innamorato di Caterina. È siciliano ma proprio per scappare dal pensiero di lei si è trasferito a Milano. Il destino li fa incontrare di nuovo, ma lei è sposata e incinta. Quando il marito di lei improvvisamente muore Mimì inizia a dedicare la sua vita, con devozione e dedizione assoluta, alla donna e alla bambina. Gli affari vanno male e Mimì si ritrova sul lastrico, Caterina gli volta le spalle e lui, entrato in banca per suicidarsi, compie una rapina con tanto di ostaggi.
Ispirato ad una storia realmente accaduta in Italia nel 1998 il film, diretto dall’esordiente Giovanni La Parola è sapientemente interpretato da Luca Bizzarri e Paolo Kassisoglu (i due volti noti de “Le Iene” ma anche ottimi attori di
E allora mambo e Tandem) e da Sabrina Impacciatore, altro famoso personaggio televisivo. Con la tormentata voce di Mina che intona “E se domani” a fare da sottofondo, si dipana questa commedia dal sapore agrodolce, che alterna momenti di sincera comicità quasi grottesca a fasi di intensa e partecipata drammaticità; uno spunto per riflettere sulla vita nella società contemporanea, divisa fra chi ne ha assorbito tutta la razionalità e l’attaccamento al denaro e chi non si rassegna a sognare, a sperare ciecamente e forse ottusamente nella vittoria dei sentimenti, pur rischiando di soffrire, di essere “perdente”, in una società che certo non premia idealisti e sognatori.
Se il cinema italiano si è già molte volte occupato della generazione dei trenta-quarantenni (da
La verità, vi prego sull’amore al più patinato L’ultimo bacio) e delle loro problematiche sentimentali-esistenziali, questa pellicola sembra proprio prendere le distanze dal panorama di un certo cinema italiano di oggi, spesso statico e convenzionale, facendo come suoi punti di forza un ritmo incalzante, un montaggio serrato, una regia che non ha paura di mostrarsi ma che anzi avvicina la macchina da presa ai suoi personaggi seguendone i più piccoli moti d’animo