Gramsci e Venezuela, parlano i professori


Giuseppe Cacciatore è professore di Storia della filosofia presso la Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Napoli “Federico II”. Visiting professor in diverse università internazionali, tra cui la Ucv di Caracas, torna costantemente in Venezuela dove insegna al master di Scienze Politiche dell’Ulac organizzato dall’Università di Salerno.


Professore Cacciatore, Gramsci e il socialismo del nuovo secolo. Che relazione c’è?


E’ un autore tra i più letti al mondo. In America Latina ha una lunga storia, le prime opere in spagnolo fuorno tradotte in Argentina, non in Spagna, alla fine degli anni 40. C’è una tradizione d’utilizzazione politica del gramscismo. C’è un’interessante rilettura per alcune sue categorie: egemonia, società civile. Tutto questo in un quadro politico di riproposizione della sinistra in America Latina.


Lei ha sottolineato due concetti “criticità” e “storicità”, cosa vogliono dire?


Significa che Gramsci considera il marxismo come una filosofia ispirata a una concezione aperta e non chiusa. Un marxismo critico e non dogmatico, non ortodosso. Può essere interessante per questi nuovi processi politici contemporanei, anche perché il comunismo nel secolo passato è stato un totale fallimento.


E’ un autore che piace sia a destra che a sinistra?


Gramsci ci ha insegnato che la politica non è solo rapporti di forza, è elaborazione di idee. Sarkozy ha imparato da Gramsci proprio questo, che la politica si fa con le idee.


Il Partito Democratico dovrebbe averlo come riferimento?


Il Partito Democratico non sembra esserne affascinato, sono alla ricerca di altri simboli, di Kennedy, di qualche papa, di qualche guru del pacifismo, di Gandhi.


Per inserirlo nel pantheon del Pd bisognerebbe interpretarlo come un liberale?


Impossibile. Era e rimane un comunista, con tutti i difetti e le contraddizioni. Noi parliamo di un uomo degli anni ‘20 e ‘30 del secolo scorso, farlo diventare democratico o liberale è una scorrettezza.


Lei torna spesso in Venezuela, che idea si è fatto dei cambiamenti politici?


E’ un’esperienza interessante, bisogna valutarla in tutti gli aspetti. Io ho visto il Venezuela negli anni finali della crisi. Era uno spettacolo deprimente, un’oligarchia di compradores e latifondisti solo interessati al proprio profitto. Una crisi che culminò nel Caracazo, nel ’89 con centinaia di morti. I giornali europei fecero finta di nulla, mentre oggi fanno tanto rumore per la revoca della licenza a Rctv. Per inciso, io credo sia sia stato un grave errore strategico commesso da Chávez.


Le paura sulla gestione populista del potere è quindi ingiustificata?


Le banche continuano a funzionare, gli imprenditori fanno affari, non ho mai visto tanta circolazione di denaro come adesso. Vengono investite le ricchezze della nazione nelle missioni, nell’ospedale di quartiere. Se questo è populismo viva il populismo.


Non ci sono ombre?


Ci sono anche delle ombre, come il rapporto stretto con i militari, o il progetto di rielezione indefinita.


E gli slogan?


Sono parole propagandistiche che tatticamente non non fanno bene al processo rivoluzionario.


L’idea di costruire un uomo nuovo non le sembra un’idea antiquata di politica?


Alcune ipotesi possono sembrare antiquate, oramai nessuno crede più nella lotta di classe, perché le classi si sono disarticolate, siamo in una società molecolare, tanto per citare Gramsci.


Tre anni fa erano d’attualità le Missioni, adesso si parla del “Poder popular”?


Sì, è un tentativo di decentralizzazione del potere. I consigli si riuniscono, funzionano bene, naturalmente non hanno grande potere, però è un momento di mobilitazione e crescita di una coscienza collettiva in un paese in cui non c’è mai stata.


Angelo d’Orsi è docente di “Storia del pensiero politico contemporaneo” all’Università di Torino. Appassionato studioso di Gramsci, è autore di “La cultura a Torino tra le due guerre” e “intellettuali nel Novecento italiano”.


Professor D’Orsi, Gramsci sembra tirato dalla giacca un po’ da tutti, Chávez lo utilizza per non rinnovare la concessione a Rctv, Sarkozy lo cita, qualcuno lo vorrebbe come un pensatore liberale, come si spiega questo fenomeno?


E’ un fenomeno che dura da molto. Gramsci è stata una presenza carsica nella cultura politica internazionale. Il suo è un pensiero frammentario, la parte principale dell’opera è stata scritta in prigione, appunti, note per opere che voleva scrivere perché pensava che un giorno sarebbe uscito dal carcere. Un’opera difficile, frammentaria, magmatica. E’come un grande supermarket dove puoi prendere quello che ti serve e lui naturalmente non può difendersi.


Un pensatore per sua natura anti-stalinista.


Abbiamo avuto un Gramsci recuperato a sinistra del Pci come strumento critico contro lo stalinismo. Gramsci era anti-estremista. Era per un ordine nuovo, ma sempre “ordine”; è stato poi criticato dalla sinistra della sinistra del Pci come un neoliberale, un capitalista, un produttivista, questo negli anni ‘70. Paradossalmente è stato interpretato come neoliberale anche negli anni 80 e ‘90 dai post-comunisti.


Il dato importante è che Gramsci è un nostro contemporaneo, pone le domande che sono nostre domande. E’ curioso che negli anni ‘90 sia stato citato come un pensatore che la nuova destra italiana e francese poteva usare come bandiera.


Gramsci analizzò il risorgimento italiano, parlò di un’Italia troppo feudale per maturare una borghesia moderna, in questo ricorda invece un vero liberale, Vincenzo Gobetti.


Gramsci e Gobetti sono oramai un luogo comune. Ci fu un articolo famoso di Einaudi, lo scrisse nell’ottobre del 1922. Parla di Gobetti e dice ” giovane intelligente liberale torinese ridotto a far l’amore con i comunisti per la pochezza del liberalismo italiano”. Gramsci stimava Gobetti, gli affidò una rubrica su Ordine Nuovo, ma lo considerava ancora un ragazzo. In effetti è morto a 24 anni e mezzo.


I due sono accomunati dal retroterra torinese , hanno respirato la cultura di Torino, la città più positiva d’Italia, diceva il mio maestro Bobbio. Positiva con una certa cultura del rigore, della serietà, dell’impegno. Gobetti e Gramsci sono affascinati dalle fabbriche, il primo esteticamente il secondo in maniera sostanziale.


Entrambi hanno respirato l’idea della cultura dei produttori, la civiltà del lavoro e la bellezza del lavoro ben fatto, l’operaio contento di produrre, la bellezza della lotta.


Quello tra Gramsci e Togliatti è invece un rapporto particolare.


Gramsci è un intellettuale politico. Togliatti un politico intellettuale, è un primo della classe, tutti 30 e lode, ha studiato la logica di Hegel in tedesco e la citava correttamente in tedesco. E’ stato un grande erudito, un politico lucido, realista anche se a volte perdeva di vista alcuni principi ideali mentre Gramsci ha sempre tenuto ben fermi i principi, per questo non voleva firmare la domanda di grazia a Mussolini. Gramsci prestava molta attenzione agli individui. Spesso veniva accusato di perdere tempo con gli operai, passava ore a discutere con loro, ascoltava i loro problemi. C’era una capacità di ascolto in Gramsci che non c’era in Togliatti, che invece aveva in mente le grandi strategie, per cui gli individui potevano essere eventualmente anche sagrificati.


Professore, mi tolga una curiosità. Com’è possibile che un uomo che sta in carcere, con poche fonti, che vive una realtà “mediata” finisce per diventare l’intellettuale italiano più tradotto all’estero.


E’ un mistero, quest’uomo aveva poche fonti, può ricevere libri a partire solo da un certo momento, per tre anni non può scrivere, gli sono permesse solo due lettere al mese ai familiari. I quaderni sono contingentati infatti scrive piccolissimo.


Aveva poche fonti, mandava l’elenco dei libri al Ministero e Mussolini in persona poteva decidere se un libro poteva essere letto o meno da Gramsci. E’ un pensatore fortemento italiano, in lui c’è Dante, c’è tutto il Rinascimento, Macchiaveli. Gramsci ha colto i problemi epocali della globalità, è un marxista, è stato il primo marxista a insistere sull’importanza dei faltori culturali.


Ora sappiamo che nessuna trasformazione è possibile senza curare gli aspetti culturali, mediatici, pedagocici. E’ stato accusato negli anni ’70 di essere sovrastrutturale ma lui diceva ‘attenzione la cultura è un fattore centrale’. Non puoi gestire il potere e fare alcuna riforma se non ti occupi di quegli aspetti.


Non possiamo vivere solo di pagnotta.


Antonio Scocozza, professore nelle Università di Napoli e Salerno, è uno dei massimi esperti di Simon Bolivar e di Venezuela. Figlio di emigrati italiani, ha scelto di dedicare la propria vita professionale a Bolivar trascinato dall’entusiasmo della madre. Quest’ultima, emigrata nel paese tropicale, ringraziava “el libertador” dallo sguardo fiero: come per molti europei sfuggiti alle miserie del dopoguerra, lei rappresentava la libertà, la possibilità di ricominciare.


Professore, partiamo dal seminario. Gramsci, Bolivar e Garibali? Un accostamento azzardato?


Sì, è azzardato, ma vorrei risponderti come diceva Rodriguez “o inventamos o erramos“, sono tre uomini che hanno l’aspirazione non solo alla libertà, ma anche alla liberazione dei popoli dalla necessità, dai bisogni, per costruire le premesse di una vita accettabile. In questo sono tre personaggi che hanno molto in comune.


Lei durante la conferenza ha parlato di una visione soprattutto “etica”di Bolivar. Ma Bolivar è un riferimento costante anche della quarta repubblica, qual è la differenza?


In Venezuela Bolivar c’è sempre stato, dal punto di vista storico può essere utilizzato da chiunque. Eticamente lo può utilizzare solo chi pone come obiettivo mettere al primo posto l’etica delle responsabilità, perché la politica include questo elemento fondamentale: deve essere al servizio degli altri, del popolo, dei cittadini, altrimenti è un cattivo servizio.


Lei è anche un grande conoscitore del Venezuela contemporaneo, che idea si è fatto del paese “rivoluzionario”?


Ci sono aspetti positivi come il mantenimento delle libertà fondamentali. Capisco che il potere voglia a tutti i costi isolare gli elementi che possono determinare la caduta del governo, è logico, anche perché è una rivoluzione che deve ancora nascere con un tipo di borghesia che ancora non muore. Una borghesia non nel senso europeo, ma compradora, latifondista, speculatrice.


Quanto tempo ci vorrà per la transizione?


Questo è il problema vero, la transizione di questi processi. Il socialismo reale ha fallito durante la transizione al comunismo.


Che idea si è fatto del poder popular?


Ho visitato alcuni consigli comunali, è bello vedere come nelle zone dell’opposizione questi siano fortemente occupati dagli antichavisti. Anche chi non è chavista ne fa parte. Ma quello che m’impressiona di più è la risoluzione dei problemi materiali del processo rivoluzionario. Ricordo due anni fa, chiesi a un tassista perché votava Chàvez? ‘Perchè altrimenti mia madre mi uccide, adesso finalmente sorride, ha i denti nuovi’ anche questo è rivuoluzione.


Ma oltre alla redistribuzione dei soldi del petrolio c’è qualcosa in più?


Siamo ancora nella fase della redistribuzione.


La sfida del “sembrar petroleo” è ancora aperta?


Bisogna passare da un’economia monoproduttore a una diversificata. C’è un impegno nella voglia di avere altri partner economici, però è difficile soppiantare il gigante del nord, è questa la sfida del governo.


Insomma bisognerà sempre fare i conti con gli Stati Uniti?


Sono una potenza con cui bisogna necessariamente fare i conti, essere emotivi ma anche razionali.


Chávez ha usato sempre un tono molto aggressivo contro Bush, se dovesse vincere Obama o una Clinton dovrà utilizzare un linguaggio differente?


Dovrà utilizzare un linguaggio diverso. Però attenzione, bisogna vedere cosa faranno davvero i democratici al potere. Kennedy era democratico e invase Cuba, intensificò la guerra nel Vietnam. Gli Stati Uniti collaboreranno davvero con i paesi del sud?


Piero Armenti