Filippo e Carmela Saglimbeni , oltre quaranta anni in Venezuela, un amore all’insegna dell’avventura

CARACAS- Camminando per le affollate stradine di Chacao incontri una piccola gelateria, dove i sapori della Sicilia vengono promossi da una coppia di artigiani messinesi.


La storia di Filippo Saglim­beni, 67 anni, qui in Vene­zuela inizia un giorno di agosto del 1959. “Avevo 19 anni quando mi imbarcai sull’Amerigo Vespucci. Il viaggio durò circa due settimane, e lì ho conosciuto molti ragazzi come me che partivano all’avventura; con alcuni di loro sono nate delle amicizie che ancora oggi vanno avanti”.


Attraversare l’Oceano, senza nessuna sicurezza, senza sapere cosa avrebbe trovato. Giovane e con la fame del dopoguerra alle spalle, Filippo arrivò in un paese straniero carico di sogni e speranze. Qui aveva soltanto l’appoggio di uno zio e di un cugino, ma ognuno doveva pensare per sé. Quando arrivò al porto della Guaira si rese conto che le cose sarebbero state ben più dure di come se l’aspettava.


“La gente ti guardava con sospetto. Era diffidente verso un ragazzo che veniva da un paesetto, Limina in provincia di Messina, che non aveva mai visto tutte le etnie differenti che si vedono qui. Io non capivo che cosa dicevano perché ovviamente non parlavo la loro lingua”.


Continua il racconto:


 “In quell’epoca lo straniero non era ben visto, oggi siamo abituati: il confronto culturale tra popoli diversi non fa paura ma affascina;  in passato gli italiani venivano visti con diffidenza, non eravamo rispettati nelle strade: certo questo per quanto riguarda la gente e la vita quotidiana.Il governo venezolano invece ci ha trattati bene, alla pari dei venezolani, ma fuori, per le strade, dovevamo stare attenti”.


Dopo qualche giorno di confusione arriva un primo impiego, in una sartoria di un altro siciliano dove resta per circa tre mesi. La collaborazione tra connazionali era l’unica possibilità di sopravvivenza per questi giovani emigranti.


 “Qui eravamo i diversi, dovevamo aiutarci  tra di noi” afferma.


Dopo questo primo impiego il signor Saglimbeni si sposta a Catia dove lavora sempre insieme ad altri compaesani. Finalmente dopo tanta fatica riesce ad aprirsi un piccolo nego­ziet­to di sartoria: era il 1962.  Quattro anni di sacrifici e, nel 1966, può  concedersi una vacanza in Italia.


“Dovevo fermarmi in Sicilia per trenta giorni ma la mia famiglia decise che era arrivato il momento di sposarmi e sono rimasto dai primi di maggio fino al 15 agosto. Così ho conosciuto la mia Carmela, siamo stati fidanzati solo 15 giorni e poi ci siamo sposati. Lei non sapeva niente di cosa l’aspettasse. Voleva solo stare con me, con suo marito, e mi ha seguito fin qui dimostrando da subito di essere una donna forte. L’unica cosa di cui era sicura è che aveva conosciuto un uomo che le piaceva, che se l’era sposato e che ora lo stava seguendo. Siamo partiti così, uniti dall’amore in cerca di avventura”.


I giovani coniugi Saglim­beni, quindi, tornano a Caracas in aereo e lavorano duro nella loro sartoria che hanno mantenuto fino a sei anni fa.


“Passavamo da un locale all’altro, da una strada all’altra ma siamo rimasti sempre a Chacao. E’ l’unico posto che ci fa sentire un po’ più tranquilli. Poi nel ’99 abbiamo deciso di aprire anche la gelateria (Gelateria Trinacria a Chacao). Avevamo un locale grande e abbiamo pensato di dividerlo in due in modo da ricavare la gelateria e mantenere uno spazio per la sartoria, che non vogliamo lasciare perché quello è il nostro mestiere, anche se adesso più che altro affittiamo smoking. Sono sette anni che abbiamo questa nuova attività e siamo orgogliosi di promuovere in questo paese la nostra cucina tradizionale (nelle Gelateria Trinacria potete gustare i migliori arancini di Caracas, parola di siciliana)”.


La signora Carmela ci racconta:


“Quando siamo arrivati io avevo il cuore soffocato dalla nostalgia. Non sapevo niente, mi sono trovata in un paese povero e totalmente diverso dal mio. Il primo anno è stato durissimo. Avevo delle amiche ma ognuna in realtà era impegnata nelle sua lotta personale. Anche io sono sarta e quindi aiutavo mio marito nel lavoro. E così siamo riusciti ad arrivare ad oggi. Ma il mio cuore è per la mia terra e combatto tra il desiderio di tornare e la paura di fare un cambiamento così grande. Se i miei figli mi dicessero che vogliono andare in Italia io li inviterei a ragionare: è un passo molto grande e doloroso quello dell’emigrante, per non parlare poi del fatto che in Italia  la situazione del lavoro è preoccupante. Mio figlio è ingegnere ma questo non gli garantisce un impiego in Italia. Qui  la situazione non è più tanto tranquilla. La criminalità è molto alta, per fortuna hanno tolto il mercato qui perché la zona stava diventando insicura. Adesso va meglio, Chacao è un bel quartiere, la gente ci tratta bene e noi abbiamo qui tutti i punti di riferimento. I miei figli hanno un lavoro e vivono tranquilli. In altri paesi gli italiani hanno trovato più difficoltà, qui almeno sono gentili. I nostri progetti futuri sono tra Italia e Venezuela”. 


Per gli emigranti un problema importante è quello della decisione sulla cultura da trasmettere ai figli: è meglio mantenere il rapporto con le radici oltreoceano o lasciarli liberi di integrarsi alla cultura ospite?


Alfio, 40 anni, e Giuseppe Saglimbeni, 33 anni, sono stati cresciuti nel rispetto e nell’amore per la cultura italiana.


“I figli di emigranti andavano tutti nelle scuole italiane, insieme, in modo da poter riscoprire la cultura della loro terra d’origine. Hanno seguito i programmi italiani, studiato la storia del nostro popolo, le sue tradizioni e i suoi costumi che cercavamo di mantenere anche a casa. Non basta studiare l’italiano per saperlo parlare, bisogna praticarlo. Chi poteva cercava di mandare a studiare i figli direttamente in Italia, ma nel nostro caso i ragazzi sono rimasti qui, anche se hanno fatto molti viaggi nel Belpaese, non solo in Sicilia”.


Ma qual è il rapporto che lega i figli di emigranti alla terra dei padri? Come si sente l’emigrante quando torna nella terra d’origine?


“I nostri figli sono entusiasti della nostra terra. Quando vanno in Italia si sentono a casa, la riconoscono come terra d’origine e cercano di mantenere il legame con la nostra cultura praticando il più possibile l’italiano, leggendo riviste e guardando la tv. Per noi è diverso. Amiamo il nostro paese e vorremmo tornare a vivere lì, ma nonostante tutto sentiamo che la nostra casa è qui. Quando vado in Italia mi fermo per periodi lunghi, diciamo un paio di mesi. Mi sento bene ovviamente, ma tuttavia rimango ‘lo straniero’. Alcuni paesani  mi criticano perché sono emigrato ed io questo non lo comprendo. Spesso la gente dà  per scontato il  rapporto emigra­zone/ricchezza, ossia pensano che  coloro che sono partiti, abbandonando tutto in cerca di fortuna l’abbiano trovata. Non capiscono che non è stato facile per tutti, anzi la maggior parte di noi ha trascorso la vita lavorando duro per costruirsi un esistenza decente. Per questo qui mi sento a casa, perché quello che ho oggi me lo sono costruito da solo, con il mio sudore e grazie all’amore di mia moglie, che mi ha aiutato ad affrontare i momenti più duri. Ancora oggi è qui al mio fianco a condividere tutto, gioie e dolori. La Sicilia è nel cuore, ma la mia vita è Caracas” racconta papà Filippo.


E’ stata dura per la famiglia Saglimbeni integrarsi in una terra nuova, dove ha cominciato da zero. Tanti sono stati i sacrifici, come il dover aspettare dieci anni prima di tornare a visitare il paese natio: altre erano le necessità urgenti. Filippo doveva lavorare sodo per costruire la casa che doveva accogliere la sua famiglia.


Importante, anzi fondamentale il supporto della collettività.


“Qui abbiamo fatto gruppo con altri paesani di Limina. Siamo in tanti, oltre cento famiglie. Basti pensare che quando sono partito la popolazione era di 3500 abitanti, mentre oggi non arriva a mille, tanto ha risentito dell’emigrazione” racconta il capofamiglia. “Cercavamo di darci conforto, la domenica ci si faceva visita e si passava la giornata insieme. Oggi invece le visite si fanno solo nei momenti più importanti: un matrimonio, un battesimo; o nei momenti più difficili: ad esempio una malattia. La comunità di Limina è cresciuta. Siamo oltre mille persone, tutte iscritte al­l’Aire. Molti di noi sono andati via. Chi non riusciva a superare la nostalgia e si è fatto sopraffare dalle difficoltà chiedeva aiuto al Consolato e ritornava a casa grazie ad un rimpatrio”.


Saglimbeni ringrazia anche tutte le associazioni e club di italiani.


“ Sono stato socio del club italiano-venezolano per tanti anni. Lì siamo di casa; ci accolgono sempre ed è un modo piacevole di vivere la condizione di emigrante. Non si deve avere paura ma essere orgoglioso delle proprie origini”.


Nel futuro dei Saglimbeni ci saranno ancora tanti viaggi verso la terra d’or­gine, ma con la consapevolezza che la loro casa è qui e la collettività italiana a Caracas è il loro popolo.