Graziano Gasparini e il fascino dell’architettura coloniale

CARACAS.- Un incontro particolare, quello con l’architetto Graziano Gasparini. Un incontro con l’arte, l’estetica ed allo stesso tempo l’eleganza della semplicitá:quando la bellezza dell’essere umano traspare soprattutto dallo spirito. Un volto aperto, uno sguardo acuto che a tratti s’addolcisce mentre racconta i momenti piú importanti della sua vita; una vita articolata con la preziositá dell’architettura coloniale della quale Gasparini ne cesella con le parole il fascino, il privilegio d’averla abbracciata, studiata, elevata nei pensieri del suo continuo andare per questa bella terra d’America. Ed é armonia pura quella che lo circonda. Parla con noi in tono pacato, fermo, ricorrendo meticolosamente ogni angolo della memoria . Alle sue spalle, attraverso la nitida trasparenza dei vetri di una grande finestra, il maestoso profilo dell’Avila si staglia verde sul profondo azzurro del cielo. Attorno a lui, nell’accogliente dimora, preziosi cimeli della sua architettura tanto amata.


Graziano Gasparini, un diamante nel grigiore di un’epoca che ci si é insinuata attorno senza chiederci permesso, senza che la potessimo prevedere nel suo assurdo grigiore e dalla quale cerchiamo l’evasione, appunto, passeggiando all’indietro: quando Caracas aveva i tetti rossi; quando i grandi architetti sognavano e costruivano; quando il mondo culturale vibrava e in ogni alba aleggiava la promessa di un futuro fertile, con il retaggio dell’antica Europa che si faceva strada verso questo nuovo mondo d’America.


Graziano Gasparini ha pubblicato il suo cinquantatreesimo libro. Intitolato “Los Antonelli”- Architetti Militari Italiani al Servizio della Corona Spagnola in Spagna, Africa e America, 1559 – 1649. I suoi libri precedenti, fin da quella prima e preziosa opera letteraria “Templos coloniales de Venezuela” (1959), ci introducono nell’architettura precolombina, il restauro, la formazione urbana e l’architettura coloniale venezuelana e iberoamericana.


Innumerevoli sono i riconoscimenti ed i prestigiosissimi incarichi che vanta Gasparini. Nel 1995 gli fu assegnato dal Governo venezolano il Premio Nazionale di Architettura e nel maggio del 2005 dal Presidente della Repubblica Italiana viene insignito con l’alta onorificenza di Commendatore dell’Ordine della Stella della Solidarietá Italiana. Graziano Gasparini é l’architettura coloniale. Attraverso i suoi libri viviamo un mondo affascinante, per lo piú sconosciuto ai profani. In quest’ultima opera di squisita fattura, l’autore si limita allo studio dei membri di una sola famiglia, quella degli Antonelli, che per quasi un secolo ( 1559 – 1649) realizzano opere di grande importanza per Carlos V°, Felipe II°, Felipe III° e Felipe IV°, in Spagna, Portogallo, Africa del Nord e nei Caraibi, dedicandosi a costruzioni d’ingeneria civile quali strade, condutture idrauliche e, maggiormente, ad erigere bellissime fortezze. Per l’architetto Gasparini é stato importante sottolineare in questa sua recente opera letteraria, il fatto che molti di questi architetti hanno sparso in varie parti del mondo i principi ed i criteri dell’architettura militare sorta in Italia sul finire del XV° secolo, nel pieno splendore del Rinascimento.


Nato a Venezia, Graziano Gasparini é giunto in Venezuela nel 1948, dopo aver studiato nell’Istituto Universitario di Architettura della magnifica Cittá dei Do.


– Negli ultimi anni lavoravo con l’architetto e amico Carlos Scarpa al quale poi, nel 1953 incaricai il progetto del Padiglione per la Biennale d’Arte nei giardini di Venezia.


-Quando s’innamoró dell’architettura?


– Quando sono venuto in Venezuela ed ho constatato che il Paese non aveva una Facoltá di Architettura. Gli architetti venezolani non superavano il numero di dieci. Immediatamente conobbi gente che mi offriva di fare case – scuole. Ho lavorato per dieci anni fino alla caduta di Pérez Jimenez.


– Come era Caracas allora?


– Caracas non contava neppure mezzo milione di abitanti. La cittá terminava nei giardini di Los Caobos. Alla Mercedes e alla Castellana c’erano “campos de cañas”. Era invece giá stata strutturata l’urbanizzazione Altamira, da Luis Roche, il quale aveva una visione molto chiara dell’architettura.


– Chiamavano Caracas: “la cittá dai tetti rossi, perché?


– Allora, Caracas era una cittá profondamente umana. La chiamavano “la cittá dai tetti rossi” per via delle pittoresche casette che avevano i tetti fatti di tegole. Gli stranieri erano accolti a braccia aperte e non esistevano discriminazioni di sorta. La gente venezolana sapeva che questa nuova emigrazione avrebbe contribuito alla crescita ed allo sviluppo della Nazione. Io non ero venuto per restare, ma bensí allo scopo di propagandare la Biennale di Venezia e non sono andato piú via perché ho conosciuto la mia prima moglie.


– Quali opere ha realizzato in Venezuela?


– Nei primi dieci anni di permanenza mi sono dedicato ai progetti. Lavoravo in una ditta edile che costruiva tutto quanto progettavo. I miei lavori piú importanti sono stati: nel 1953, un edificio nell’urbanizzazione“La Castellana” e uno nell’”avenida” Urdaneta: l’”IPAS-MEN” in San Bernardino. Nel ’58 quando cadde il regime di Pérez Jiménez, proprio il 23 febbraio, mi chiamó il dott. Francesco De Venanzi, primo Decano dell’Universitá Centrale del Venezuela, incaricandomi della Cattedra di Storia dell’Architettura Coloniale, presso la Facoltá d’Architettura. La mia vita ebbe un cambiamento. Tornai alle incipienti origini, di quando ero ricercatore e studioso dell’architettura a Venezia: la mia tesi era stata “L’influenza dell’architettura bizantina nell’architettura veneziana secolo 10° – 13°.


– Cosa significó l’offerta di De Venanzi?


– Fu un incentivo che moralmente mi obbligó a dedicarmi nell’estendere ed approfondire lo studio dell’architettura, non soltanto quella coloniale venezolana, ma anche quella ispanoamericana: dal Messico all’Argentina. L’architettura venezolana mi aveva conquistato per la sua semplicitá logica: come difendersi dall’eccesso del caldo, lo studio dei materiali e il loro impiego nella costruzione e poi, devo sottolineare, che non esisteva nessun libro sulla materia. Fu cosí che nel 1959 nacque il mio primo libro “Templos coloniales de Venezuela”. Questo libro fu il risultato di alcuni anni di viaggi nell’interno del Paese, quando appunto, non esistevano strade asfaltate e quelle poche che c’erano, terminavano a Valencia. Non conoscevo il Paese, ne’ i luoghi, ma avevo una carta geografica della “Esso Standard Oil” e li sopra andavo cancellando tutti i paesini giá visitati, scoprendo tante cose che, quando uscí nel ’59 il libro che riuniva quasi duecento chiese coloniali del Paese, il giornale “El Nacional” pubblicó un articolo intitolato: “Teniamos una Arquitectura colonial sin saberlo”. Da li, sempre nell’Universitá dove sono rimasto per trenta anni, ho fondato in Istituto di Ricerche, ho organizzato riunioni internazionali, partecipato alle piú importanti riunioni sulla conservazione del patrimonio coloniale. Uno dei lavori piú grandi di restauro e di gran soddisfazione é stato aver avuto l’incarico di dirigere i lavori (assieme ad altri architetti del restauro) di Cuzco, nel Perú, dopo uno dei tanti terremoti della zona. Un altro importante lavoro fu il progetto di consolidamento delle strutture delle Missioni gesuitiche del Paraguay, evitando che le radici degli alberi le distruggessero e facendo moltissimi lavori di “anastylosis” (rimettere allo stesso punto le pietre cadute o disperse nell’intorno delle rovine). Erano le preziose testimonianze dei luoghi abbandonati dai Gesuiti nella selva per circa duecento anni, avvolti dalla fittissima vegetazione tropicale.


– Architetto, lei si sente una persona che nella vita ha fatto ció che piú desiderava fare?


– Mi ritengo una persona fortunata. Detesto il lavoro controllato dalle sfere dell’orologio. L’unico orario invece, che ho sempre accettato per quasi trenta anni, é stato quello delle lezioni di architettura. Durante questi sessanta anni vissuti in Venezuela mi sono dedicato costantemente alla ricerca, allo studio ed in questo mi ha aiutato anche mia moglie, Luisa Margolies ce vanta un dottorato della Columbia University.


– Architetto Gasparini, qual é il messaggio che si sente di dirigere alle nostre giovani generazioni?


– …il messaggio? É molto difficile. Ero amico di Carlos Raúl Villanueva che ho conosciuto negli ultimi venticinque anni della sua vita: gli anni in cui entrambi impartivamo lezioni d’architettura presso l’Universitá Centrale del Venezuela. Purtroppo, lo spirito di quei momenti oggi si é completamente perduto. Non esiste piú quel criterio d’unione che rendeva incredibilmente piacevoli tutte le lezioni. Oggi, é molto triste ammetterlo, viviamo una mancanza di armonia.