“Voglio la verità sulla morte di Simone”

ROMA – Morire in viaggio, morire per caso, senza che si possa trovare una ragione. Triste destino che ha accomunato Elena Vecoli, uccisa a Los Roques, e Simone Renda. Entrambi uccisi senza una ragione. In Messico come In Venezuela, nell’attesa di una giustizia che non fa giustizia, ma insabbia, occulta, nega. La breve vita di Simone è finita in una cella, ucciso come un animale. Senza acqua per tre giorni e tre notti, senza assistenza medica, lontano dalla famiglia, imprigionato senza aver commesso alcun reato. Simone è morto il 3 marzo del 2007, mentre si trovava in vacanza a Playa del Carmen, in Messico. Da quel giorno, la madre del bancario 34enne di Lecce tragicamente scomparso, ha iniziato la sua battaglia per la verità.  “E’ assurdo morire in questo modo – ha raccontato Cecilia Renda al Corriere Canadese – chiedo che venga fatta giustizia, perché in futuro non debba esserci un’altra madre costretta a piangere il proprio figlio per una morte così assurda”.  E ripercorre , la madre, con il livore di una madre offesa, le ultime ore del figlio: Simone, dopo aver trascorso una vacanza di quindici giorni a Playa del Carmen, deve ripartire per l’Italia. La sera prima chiede di essere svegliato presto. Il suo aereo parte all’una. La mattina seguente nessuno lo chiama: si sveglia a mezzogiorno dalle donne delle pulizie. Simone si agita, non si sente bene, sa di aver perso l’aereo, prepara le sue valige e scende giù nella hall dell’hotel. Il ragazzo chiede alla direttrice dell’albergo di chiamare l’assistenza medica, ha la pressione alta, forti giramenti di testa, ha bisogno di un dottore. Ma l’ambulanza non arriva, arrivano invece i poliziotti. Lo arrestano, con l’accusa di disturbo della quiete pubblica e lo portano in carcere. “Il tragitto che separa l’hotel dal carcere – sottolinea la madre – in macchina si percorre tranquillamente in pochi minuti. Stando invece a quanto stabilito dagli atti processuali, Simone arriva alla prigione dopo un’ora e mezza. Cosa è successo in questo lasso di tempo?”. Prima di essere sbattuto in cella, il ragazzo viene visitato da un medico. “Il dottore – prosegue Cecilia Renda – accerta che mio figlio ha la pressione alta, ma non solo: suppone che ci sia un infarto in corso. Consiglia che Simone venga mandato in una struttura ospedaliera per ulteriori accertamenti”. Niente di tutto questo. Il giovane viene arrestato e lasciato morire dietro le sbarre. Cecilia viene a sapere della morte del figlio due giorni dopo, quando la Procura di Lecce la avverte della richiesta inoltrata dalle autorità messicane per la cremazione del corpo di Simone e per il sostegno delle relative spese. In preda alla disperazione, decide di partire per il Messico, ma le viene consigliato di rimanere in Italia, perché la salma di Simone potrebbe arrivare da un momento all’altro. È così il cognato, docente di medicina all’Università di Napoli, che parte per Playa del Carmen. L’uomo trova il cadavere del ragazzo in condizioni pietose. “Mio cognato visita la salma – ricorda Cecilia – e riscontra un’evidente ferita alla testa e delle escoriazioni sulle braccia”. Da qui, la famiglia Renda decide di sporgere denuncia. Nel frattempo arrivano anche i risultati dell’autopsia: Simone è morto completamente disidratato, ucciso da un infarto. L’esame tossicologico fatto sulle urine non rileva alcuna presenza di sostanze stupefacenti o alcol. “Personalmente, mi sono fatta un’idea di cosa possa essere successo. Semplicemente ai carcerieri di mio figlio gli è scoppiato il caso che avevano in mano. Tutta la vicenda è costellata di gravissimi errori: basta pensare che in Messico, per il reato contestato a Simone – disturbo della quiete pubblica – non è previsto l’arresto, ma il semplice fermo di polizia, seguito dagli accertamenti e dal rilascio”. Emerge un secondo buco nero: Simone arriva al carcere con una carta di credito, la patente e il tesserino sanitario. Questi documenti spariscono.  Cecilia ha sete di verità. Si rivolge ad un avvocato italomessicano, in modo da poter seguire da vicino l’avvio dell’inchiesta e del relativo processo dopo la denuncia presentata dal cognato. “Ma quello celebrato a Playa del Carmen è un processo farsa. Dei nove imputati, solamente uno si presenta davanti al giudice”. Il procedimento, manco a dirlo, si conclude con l’assoluzione degli imputati per le accuse più gravi. Viene invece accertata, in via indiretta, la responsabilità di Hermilia Balero, Enrique Najera e Pedro May, che non trascorrono nemmeno un giorno di galera grazie al pagamento di una cauzione in pesos, quantificabile in circa 4mila dollari. La madre di Simone decide di non arrendersi. Il suo legale chiede che si apra un’inchiesta per sequestro di persona, tortura e omicidio e, allo stesso tempo, presenta la richiesta che il processo venga trasferito dalla procura di Quintana Roo – che tratta casi di competenza statale, guidata dal controverso Bello Melcor Rodriguez, protagonista a suo tempo delle indagini sul duplice omicidio dei coniugi Nancy e Domenic Ianiero – all’Ufficio del Procuratore Generale della Repubblica – che ha invece competenza federale – a Città del Messico. Una decisione in merito, fatto che potrebbe riaprire la vicenda dal punto di vista giudiziario, è attesa a breve.  Contemporaneamente, Cecilia Renda si oppone alla chiusura per “improcedibilità” del fascicolo penale aperto dalla Procura di Lecce, appellandosi alla clausola legale che prescrive che i casi di tortura siano di competenza della Procura dove risiede la vittima, anche se questi vengono commessi all’estero. Ma non solo. Cecilia mobilita anche le istituzioni italiane. Viene ricevuta dal ministro degli Esteri Massimo D’Alema, si incontra con l’ambasciatore messicano a Roma, si mette in contatto con Gino Bucchino, deputato eletto nella circoscrizione Nord e Centro America. La vicenda di Simone Renda viene addirittura discussa dal presidente della Repubblica Giorgio Napolitano durante un incontro con Felipe Calderon. La madre di Simone si rivolge anche ad Amnesty International, che non la degna di una risposta se non un anno dopo, dichiarando di non poter fare nulla. “Allo stesso tempo – continua Cecilia – vorrei lanciare un appello ai tre parlamentari eletti nella circoscrizione del Nord e Centro America nell’ultima tornata elettorale, affinché facciano tutto il possibile per riaprire il caso a livello istituzionale”. Scoprire la verità, vedere i colpevoli dietro le sbarre: Cecilia Renda continuerà la sua battaglia fino a quando gli assassini del figlio non avranno un nome e un cognome, senza più quell’odioso ghigno garantitogli dall’impunità.