Il fotoreporter Siragusa: un occhio sull’Italia arrivato sino a Caracas

CARACAS – C’è anche Massimo Siragusa tra i quattro fotografi italiani premiati dal World Press Photo 2008, il concorso di fotogiornalismo in mostra itinerante che è giunto al Transnocho di Caracas. L’artista catanese, classe 1958, si è meritamente guadagnato il 2° premio per la sezione “Arts and entertainment – Stories” con un lavoro sui parchi divertimento in Italia. “Da molti anni partecipo al World Press Photo – ci racconta – ed è la terza edizione in cui vengo premiato. La prima volta è stata nel 1997: secondo premio grazie ad un lavoro sul fanatismo religioso in Italia. Poi nel ’99 vinsi il primo premio con un reportage di viaggio che aveva come tema il mondo del circo”. Un legame con il concorso giustificato dal fatto che il World Press, come ci dice Siragusa, ”grazie alla sua divisione in sezioni ed alla sua apertura a livello mondiale ha il pregio di far coesistere gli aspetti più diversi che compongono il reale. Questo – continua – permette la comunicazione della conoscenza del mondo alle diverse latitudini”.


Erano gli ultimi anni ’70 quando l’autodidatta Massimo scopre la sua vocazione: “La passione per la fotografia è nata durante gli anni dell’università – ci dice –; frequentavo Scienze Politiche quando ho iniziato a fotografare gli amici che partecipavano alle manifestazioni studentesche. Ora da quasi vent’anni sono rappresentato dall’Agenzia Contrasto e credo di essere, all’interno, il fotogiornalista con  maggior anzianità”. 


Con il suo “trittico” fotografico, Siragusa restituisce immagini dai toni irreali, bianchi e pastello. I colori sono calibrati, misurati su un tempo immaginifico. Ed il mondo, tutto intorno, è un salto dentro e fuori la realtà. “Sono diverse fasi della vita a cui si legano differenti interessi. Ora la mia attenzione si rivolge al gioco ed al divertimento, un giocoso che non significa ‘meno serio’, un giocoso che m’interessa come ricerca di costume, indagine sulla realtà italiana ed il suo modo di divertirsi, svagarsi, vivere ed interagire con l’artificiale” ci dice il fotografo. Torna alla mente la ‘cultura  del tempo libero’ di Moriniana memoria: divertimento e svago democraticamente accessibili come parte integrante dell’organizzazione stessa del lavoro, non più tempo festivo e di riposo, ma di consumo. Sempre e solo apparente sinonimo di benessere.


Il lavoro di Massimo Siragusa incuriosisce, stupisce, leggero e spericolato al tempo stesso. Rappresentato in queste immagini innaturali è l’uomo, piccola figura che cammina in un verde irriconoscibile, sotto cieli artificiali, grandi come gli oggetti che lo circondano, in scena in uno spazio irreale. Materiali e spazi italiani che sono il nuovo orizzonte artistico di Siragusa: “Oggi ciò che cattura la mia attenzione è l’ambiente, non tanto quello naturale quanto quello architettonico o quello dei territori abbandonati”. E riferendosi all’America Latina continua: “La stessa matrice la utilizzerei se dovessi fotografare la realtà dell’America del Sud: il mio scatto rappresenterebbe il ben conosciuto contrasto esistente tra la ricchezza esibita nei centri e l’abbandono vissuto nelle periferie. Cercherei di mostrare la condizione della realtà sociale non attraverso le persone quanto attraverso la diversità dell’architettura che le ospita: la struttura interna delle case, le facciate esterne, gli spazi. Lo stesso lavoro l’ho già svolto in Italia quando ho immortalato le favelas siciliane ed i bassi napoletani”.


Un “non-viaggiatore” per scelta, Siragusa, nonostante per anni abbia seguito l’ultimo Papa nelle sue migrazioni evangeliche. “Il viaggio più importante che ho fatto è stato nel sud del Cile – racconta –. Ma non sono un fanatico dello spostamento in quanto tale, un po’ per pigrizia, un po’ per lentezza. E’ un fondamentale orientamento verso l’Italia, caratteristico di questo mio periodo artistico, iniziato per caso e diventato poi una scelta perché m’interessa la presenza continuativa nel territorio da reppresentare – ci spiega –. Per questo motivo preferisco posti vicini a casa, territori dei quali già possiedo una conoscenza di base. Questo mi permette una comprensione maggiore. Serve tempo per documentarsi ed orientarsi. Ad esempio, le opere con cui ho partecipato al World Press sono tra i frutti di un lavoro che dura già da tre anni. Il fine è quello di riuscire ad avere abbastanza materiale interessante per pubblicare un libro che sia il risultato dei miei ultimi sforzi”.