“Vu’ cumprà” addio, l’immigrante è imprenditore

ROMA – ‘Vu’ cumpra” addio. Oggi l’immigrato imprenditore è un professionista a tutto tondo che dà lavoro, si stima, ad almeno mezzo milione di lavoratori, anche italiani. Non si occupa solo di etnico ma amministra lavanderie, saloni di estetica, pasticcerie, agenzie di viaggio e di traduzione; anche farmacie e piccole case di moda. Il numero delle imprese di immigrati, in Italia, è in forte ascesa: dal 2000, sono cresciute al ritmo di 20 mila l’anno. In cinque anni, dal 2003 al 2008, gli imprenditori stranieri sono triplicati. Attualmente sono 165.114 gli immigrati titolari d’impresa. Si tratta di un’­azien­da ogni 33 (il 2,7 per cento di quelle registrate, il 3,3 per cento di quelle attive) e rispetto al 2003 (quando erano appena 56.421) il loro numero, a giugno 2008, è triplicato. Un sesto degli imprenditori è donna. Le imprese di immigrati incidono quasi per il 10 per cento nel lavoro dipendente. E’ il quadro che emer­ge da un rapporto della Fondazione Ethnoland, realizzato in collaborazione con i ricercatori del Dossier immigrazione Caritas/Migrantes (‘ImmigratImprenditori’, ed. Eidos), presentato a Roma nella sede dell’Abi (Associazione bancaria italiana).


Il maggior numero di imprese si trova in Lombardia (30 mila) e Emilia Romagna (20 mila). Nel meridione si registrano però delle eccellenze: in Sardegna, Sicilia e Calabria gli immigrati hanno uguagliato il tasso di imprenditorialità degli italiani e in alcune regioni come il Piemonte e la Toscana è più soddisfacente della media nazionale. Tra gli italiani vi è un’impresa ogni 10 residenti, mentre tra gli immigrati una ogni 21. Se si uguagliasse il tasso di impren­ditorialità nazionale, entro 10 anni l’ammontare delle nuove aziende ‘straniere’ potrebbero salire di altre 200 mila raggiungendo un milione di occupati.


A livello provinciale, al momento, spiccano Milano (17.297) e Roma (15.490). Il settore privilegiato è l’industria con 83.578 aziende (50,6 per cento); al suo interno prevale l’edilizia (64.549) e il tessile (10.470). Gli agricoltori sono appena 2.500, per via degli alti costi iniziali che comporta l’acquisto dei poderi.


Gli imprenditori stranieri sono per lo più marocchini (in 5 anni sono aumentate del 27,4 per cento), seguono i romeni (+61,2 per cento), i cinesi (+24,4 per cento), l’Albania (+48,5 per cento). I marocchini sono per lo più dediti al commercio (67,5 per cento), i romeni all’edilizia (80 per cento), i cinesi si ripartiscono fra l’industria manifatturiera (46 per cento) e il commercio (44,6 per cento). A spingere un immigrato ad avviare un’impresa è il maggior guadagno visto che se dipendenti la loro paga è appena il 60 per cento di quello di un italiano. E poi, rileva il rapporto, gli immigrati vogliono “scrollarsi di dosso i pregiudizi dando di sé un’immagine più veritiera. La volontà di affermarsi è fortissima anche se a volte è frenata dagli ostacoli legislativi, burocratici, finanziari, ambientali”. Il più delle volte hanno fatto la gavetta da dipendenti, spesso cambiando lavoro.


Il rapporto ricorda che il lavoro degli immigrati contribuisce alla formazione di circa un decimo del Pil. Nel 2007, il loro gettito fiscale è stato stimato in 5,5 miliardi di euro. Mentre, il costo a carico dei comuni – se si ipotizza che siano stati il 20 per cento dell’utenza – si stima una spesa di 700 milioni di euro: “un livello comunque di neanche un quinto del totale delle entrate fiscali assicurate dagli stessi immigrati”. Infine: ogni tre immigrati adulti due hanno un conto in banca.