Segreto bancario, la Svizzera cede: dará 8-10 mila nomi agli Usa


NEW YORK — UBS, il gigante bancario svizzero che è il secondo operatore al mondo nel campo della gestione dei patrimoni, fornirà al governo di Washington i nomi di migliaia di suoi clienti americani che hanno depositato una parte della loro ricchezza presso l’istituto: soldi materialmente versati nella Confederazione elvetica o gestiti da società basate in altri “paradisi fiscali”. E sui quali sarebbero stati evasi gli obblighi fiscali.


L’accordo, già preannunciato dai governi dei due Paesi, è stato ufficialmente confermato ieri dagli avvocati del ministero della Giustizia statunitense al giudice distrettuale di Miami, Alan Gold, che si sarebbe dovuto pronunciare sulla denuncia contro l’UBS presentata proprio dal governo Usa nel febbraio scorso.


È la prima volta che il governo di Berna accetta di far cadere, anche se solo in parte, il velo del segreto bancario. La trattativa è stata lunga proprio perché la Svizzera ha difeso fino in fondo il principio della confidenzialità del rapporto tra istituti di credito e clienti: una consuetudine che risale al Tredicesimo secolo e che – nonostante gli evidenti rischi di lasciare spazio all’evasione fiscale e ad atti di criminalità finanziaria – è stato sempre difesa come garanzia di sicurezza offerta anche a soggetti meritevoli di tutela come la minoranze perseguitate: ad esempio le famiglie degli ebrei tedeschi perseguitate dal Terzo Reich. Berna ha tenuto duro anche quando (il 18 febbraio scorso) l’UBS – trascinata in tribunale e con alcuni suoi dirigenti già perseguiti negli Usa – ha deciso di consegnare alle autorità americane un primo elenco di 250 clienti, ha pagato una multa di 780 milioni di dollari e ha iniziato a negoziare un accordo generale. Il governo, in quella circostanza, ha avvertito la banca che non avrebbe tollerato violazioni della legge sul segreto bancario, ma, al tempo stesso, si è reso conto che un processo pubblico negli Stati Uniti col principale gruppo bancario svizzero cme imputato, avrebbe avuto pesanti conseguenze politiche e di immagine.


È così iniziata una laboriosa trattativa. Alla fine Washington ha accettato di ricevere non l’intera lista dei 52mila clienti americani di UBS, come chiesto inizialmente, ma un elenco più limitato che non verrà consegnato direttamente dalla banca ma dalle autorità svizzere. Proprio la definizione di questi ultimi passaggi ha fatto slittare la firma materiale dell’accordo alla prossima settimana. In attesa della sigla, le parti non hanno fornito elementi sui contenuti dell’intesa, ma gli avvocati dei due fronti ritengono che UBS fornirà l’identità 8-10mila suoi clienti.


Probabilmente Berna presenterà l’accordo non come una parziale lacerazione della sua “privacy” bancaria, ma come un modo di contemperare il rispetto della legge sul segreto con gli accordi contro le frodi fiscali firmati con molti Paesi europei e gli Usa: accordi che la impegnano a fornire informazioni finanziarie utili al perseguimento dei reati tributari. “Filtrando” l’elenco dei clienti Ubs, il governo svizzero potrà sostenere di aver consegnato solo dati utili al perseguimento di un reato, lasciando, per il resto, intatto il principio del segreto bancario.


Per Washington va bene così: da quando l’UBS negozia, infatti, gli uffici dell’IRS (il Fisco Usa) sono stati presi d’assalto da migliaia di contribuenti pronti a regolarizzare la loro posizione, riportando i loro fondi in patria. La norma che utilizzano non è generosa, almeno se confrontata con quella studiata in Italia: le tasse evase vanno versate per intero con un interesse di mora del 20%. Ma le sanzioni sono ridotte e si evitano le conseguenze penali. Quando, a luglio, in una sola settimana si sono presentati diverse centinaia di contribuenti (più che nell’intero 2008), l’IRS ha addirittura predisposto un modulo invitando i “pentiti” ad autodenunciarsi “online”, anziché intasare gli uffici. E i termini per la sanatoria sono stati prima estesi fino al 23 settembre e ora, per molti contribuenti, addirittura fino a metà 2010. Per Obama una piccola boccata d’ossigeno nel mare del deficit e un esempio “virtuoso” da mostrare agli stremati contribuenti americani.