L’errore di Fini ed il silenzio dei nostri eletti

 


D’accordo. Nonostante l’abisso ideologico che ci separa, non possiamo che condividere. Il presidente della Camera dei deputati, Gianfranco Fini, ha ragione. E dimostra di avere fermezza, in un’Italia percorsa da correnti xenofobe e sentimenti anti-immigrati, quando spezza una lancia a favore di chi, nato in altre terre, vive e lavora in Italia. Il voto nelle amministrative e nelle regionali, come afferma Fini, è “una scelta coraggiosa e lungimirante”, “una delle grandi sfide della democrazia”. Non è certo una concessione.


E’ vero. Il principio di uguaglianza che impedisce la discriminazione sociale, come spiega Fini, non ha senso quando si priva il cittadino dei diritti politici. Ed il voto è uno di questi. Il primo. E’ un concetto che la “Voce”, fin dall’alba degli anni ’70, ha sostenuto con fermezza e convinzione. Senza diritti politici si è cittadini di “serie B”. Non si è corresponsabili di quelle decisioni che, poi, condizionano la nostra quotidianità. Lo ha sostenuto in Venezuela, quando affermava che non c’è piena integrazione se vengono a mancare diritti fondamentali come la partecipazione politica. E lo ha difeso in Italia, quando sosteneva che senza voto le nostre Collettività non hanno voce.


D’accordo, quindi, sul tema dei diritti politici agli immigrati; ma schierati su sponde diametralmente opposte quando si ritiene che, oggi, i loro figli in Italia “sono potenzialmente molto più italiani dei nipoti dei nostri immigrati in Argentina o in Brasile”. E’ una grossa menzogna.


Il presidente del Consiglio incorre innanzitutto in un crasso errore quando considera straniera la seconda generazione, i figli d’immigrati. No. Chi nasce in Italia, anche se da cittadino straniero, è italiano a tutti gli effetti. D’altronde, sono venezolani i nostri figli e nipoti nati in questa terra. Il paragone, quindi, non regge. E’ poi è una grossa menzogna sostenere che i nostri figli o i nostri nipoti sono meno italiani che gli italiani stessi.


Chi è nato all’estero, come chi scrive, nutre due grandi amori: quello per la patria di origine dei genitori e quello per la terra in cui è nato. Le distanze, e per chi vive oltreoceano sono tante, non incidono nei sentimenti; anzi li accrescono. Ed in più di un’occasione lo si è dimostrato. Bastava che il presidente Fini si fosse informato, che avesse chiesto a qualche connazionale all’estero. Ma non lo ha fatto, è evidente. Poi, se per assurdo quanto da lui affermato fosse vero, allora più che la critica andrebbe fatta un’autocritica. In cosa ha sbagliato l’Italia? In cosa è venuta meno?


Gli italiani all’estero, in passato, e specialmente in questa legislatura, sono stati sempre trascurati, considerati cittadini di “serie B”. Le nostre Collettività sono degne di elogi solo quando, grazie alla loro presenza, l’Italia riesce a strappare ricchi appalti. Le si ricorda solo quando bisogna siglare importanti accordi, soprattutto economici, o al momento dei tagli nella Finanziaria, non curanti se poi questi castigano soprattutto le fasce di connazionali più bisognose. Poi nulla. Anzi, le si evita. E quando non si può fare a meno, si chiede sovente alle nostre Ambasciate “visite guidate”, proprio come i “tour”. Così da evitare quella parte della nostra Collettività, forse meno fortunata ma proprio per questo meno disposta a genuflessioni, pronta a fare domande scomode, a chiedere spiegazioni ad esigere.


Spiace che il presidente della Camera abbia tale opinione dei nostri figli. Ma spiace ancor più notare che chi, in questo caso, doveva insorgere, far ascoltare la propria voce, farsi interprete dei nostri sentimenti, ha taciuto. Ci chiediamo, dove sono i nostri eletti? Dove i nostri rappresentanti in parlamento, specie quelli della circoscrizione dell’America Latina? Perché questo silenzio assordante?