Vivere tra Gaza e Cisgiordania. Un videogioco per capire

ROMA – In teoria. In pratica non è mai stato così. Gli accordi di Oslo del ‘93, che sancivano l’autogoverno palestinese, morirono con il premier israeliano Yitzhak Rabin il 4 novembre del 1995. Da allora la Palestina non si avvicinò più all’unità.

Per spiegare come si declina questa divisione nella vita di tutti i giorni fra gli abitanti di Gaza, l’organizzazione no-profit israeliana Gisha, nata nel 2005 per proteggere la libertà di movimento dei palestinesi, ha inventato il gioco on-line www.spg.org.il. Si chiama Safe Passage, Passaggio Sicuro, e permette di verificare le difficoltà che si presentano quotidianamente a un palestinese di Gaza che decide di raggiungere la Cisgiordania: l’altra parte del suo Paese.
– Abbiamo affrontato una sfida: rendere accessibili i documenti militari al pubblico – si legge in un comunicato -. La nostra soluzione era quella di integrarli nelle storie personali di gente nella Striscia di Gaza e Cisgiordania, per aiutare a capire la politica.


Safe Passage è un gioco di ruolo in cui vestire i panni di tre diversi personaggi: un produttore e distributore di gelato che vive a Jabalia (Striscia di Gaza) il quale, a causa del blocco israeliano sulle merci, è impossibilitato a consegnare il suo prodotto ai consumatori della Cisgiordania; una giovane studentessa di Gaza City, ammessa al corso di matematica dell’Università di Birzeit, che non riesce a far accettare la sua richiesta di spostamento; poi un padre di famiglia, con un figlio di 7 anni, che viene rimandato a Gaza a 10 anni di distanza dal suo trasferimento in Cisgiordania e che non riuscirà a raggiungere la famiglia per essere sprovvisto della residenza nell’altra regione del suo Paese.

Per tutti, personaggi reali di cui si raccolgono storie e fotografie, il passaggio non sarà facile. Il venditore di gelati proverà n a raggiungere la “West Bank” attraverso Israele dopo aver superato la dogana di Hamas con un permesso. Impossibile. Tenterà passando dall’Egitto e, poi, dalla Giordania. Ma anche qui, per missioni non di natura umanitaria, Tel Aviv ha bloccato ogni accesso. Per la studentessa le porte di una delle Università del suo Paese rimarranno chiuse nonostante le richieste scritte per il permesso di viaggio in Cisgiordania. “Nessuno può entrare o uscire dall’area senza un permesso mio o di qualcuno autorizzato, in forma scritta, da me” sancisce unilateralmente il comandante delle Forze di Difesa Israeliane a Gaza. Meglio non andrà per l’istanza all’Ufficio di Coordinamento del Distretto di Gaza che “non permetterà il passaggio in Giudea e Samaria per la mancanza di criteri”.

E se proverà ad adire l’Alta Corte di Giustiza d’Israele la studentessa sarà costretta a dimostrare la sua innocenza visto che i magistrati di Tel Aviv presumono che le Università di quell’area siano “serre per l’allevamento di terroristi”. Infine la famiglia disunita in virtù del fatto che il padre ha la residenza a Gaza e quindi, secondo Israele, non ha il diritto di stare in Cisgiordania con moglie e figli. L’unica possibilità di passare da un territorio all’altro, la cui unità politica Tel Aviv continua a ignorare, è la motivazione “umanitaria”.

E qui la storia si complica perché “i legami familiari non vengono considerate ragioni umanitarie che giustificano la riunificazione delle famiglie”. Così vale anche per un orfano a cui l’unico genitore è rimasto in Cisgiordania. A lui sarà permesso di raggiungere il padre o la madre solo “se non ci sono altri membri della famiglia a Gaza che si possano prendere cura di lui o di lei”. E ancora un anziano o un ammalato.

Alla fine di ogni gioco, documenti sui diritti infranti dei personaggi. Dichiarazioni sul diritto al lavoro, a godere di adeguati standard di vita, all’educazione, all’esame di una richiesta, alla vita famigliare, alla libertà di movimento, a scegliere la propria residenza, i diritti dei bambini. Parallelamente si ribadiscono i doveri di uno Stato, in questo caso uno Stato terzo come Israele, a non infliggere punizioni collettive e ad assicurare una vita normale nei territori occupati.