L’ultimo treno

Non è un segreto. Non lo era ieri e non lo è oggi. Ma sì un argomento che molti avrebbero preferito non dover affrontare – almeno non in questo periodo estivo – o addirittura continuare ad ignorare convinti, chissà, che il problema scompare se non se ne parla. Ergo, se si ignora… Invece, tutt’altra è la realtà.

Si è giunti al capolinea. Pare che non ci siano dubbi. La sgradevole notizia del Centro Italiano Venezolano di Ciudad Ojeda ci obbliga a mettere i piedi a terra. Oggi siamo inesorabilmente di fronte ad una realtà scomoda, alla quale non possiamo più dare le spalle. E’ vero che l’esproprio, da quel che emerge dal servizio di Monica Vistali pubblicato giovedì scorso, mette in luce trame di potere, intrighi politici ai quali siamo estranei; ma lo è anche che, se le circostanze interne del nostro sodalizio fossero state diverse, difficilmente si sarebbe visto coinvolto in una disputa che ha il sapore di una sfida pre-elettorale. Probabilmente, anzi ne siamo certi, il Sindaco non avrebbe ravvisato gli estremi per la drastica decisione.

E’ chiaro che i nostri Centri sociali, tutti senza eccezioni, sono il riflesso delle nostre realtà regionali. Ma lo sono anche di quelle politiche, economiche, istituzionali e sociali. Se in una regione è radicata l’industria del sequestro, è normale che nel nostro sodalizio di sera ci siano poche attività. Si evita di uscire dopo l’imbrunire per prudenza, che in tali circostanze non è mai troppa. Se l’economia della città, come ad esempio quella di Ciudad Ojeda, è duramente colpita dal fenomeno delle occupazioni accompagnato da quello degli espropri, è logico che anche i connazionali – per lo più industriali, agricoltori e commercianti -, si trovino in grosse difficoltà. E’ probabile che alcuni abbiano perso la propria fattoria a causa delle occupazioni abusive e che altri, invece, si siano visti espropriare l’azienda che avevano creato più di cinquant’anni fa o della quale erano azionisti. Ed allora, oggi, non hanno come pagare le rette mensili di un club sociale. Come ha ammesso il presidente del Centro Italiano Venezolano di Ciudad Ojeda, Oscar Framiglio, di quasi 200 soci solo una quarantina, quest’anno, non sono morosi e continuano a pagare religiosamente il loro canone mensile di 25 bsF. Una cifra che in una metropoli può apparire irrisoria e forse anche ridicola. Ma che per un piccolo centro urbano, per una famiglia economicamente in crisi, rappresenta una enormità. Alle casse del Centro Italiano Venezolano di Ciudad Ojeda è venuto a mancare denaro. Quindi, la Giunta Direttiva si è vista nell’impossibilità di provvedere all’adeguata manutenzione dell’infrastruttura. Da lì le piscine in disuso, qualche bagno non funzionante, alcune sale senza aria condizionata e via di seguito. Insomma, diciamolo pure con franchezza, era un sodalizio in affanno, come d’altronde ve ne sono altri. Che dire dei Centri sociali di Coro, Punto Fijo e San Carlos? O del Club di Cumanà e la Casa d’Italia di Ocumare del Tuy? Esistono, è vero; ma solo sulla carta. Hanno ormai chiuso i battenti. Nessuno più li frequenta. Alcuni addirittura sono in svendita. E’ questa una realtà che pochi ignorano; che da anni puntualmente è acclusa all’ordine del giorno delle assemblee ordinarie o straordinarie di Faiv; che emerge ogni qualvolta si è alla vigilia dei giochi Fedeciv, appuntamento che i clubs in crisi regolarmente disertano. E’ questa la realtà che il presidente di Faiv, Mariano Palazzo, ha illustrato alla Voce. Lo ha fatto presentando semplicemente i fatti; con onestà, noncurante delle reazioni di chi preferisce tacere o nascondere. Insomma, pane al pane, vino al vino, come è logico che sia. E come indica il buonsenso.

Certo, una volta messo il dito nella piaga è indispensabile correre ai ripari. Insomma, affrontare il problema e cercare una soluzione che non allontani i pionieri dai nostri circoli, che non privi coloro che non hanno denaro di un luogo sicuro di svago e, soprattutto, che offra ai giovani una ragione per frequentarlo. Non sarà facile.

Quello che Faiv dovrà svolgere sarà un ruolo di grande responsabilità. All’attuale esecutivo si offre l’occasione di riscattare l’istituzione, di scuoterla dal letargo in cui è sprofondata a causa delle circostanze e di imprimergli uno stile proprio. La società, nel bene e nel male, si evolve e così anche le nostre istituzioni. Viviamo altri tempi, assai diversi da quelli che toccò vivere ai pionieri. E’ vero. Oggi le circostanze offrono a Faiv l’occasione di interpretare un ruolo nuovo, che non è più solo quello di fungere da raccordo tra le nostre associazioni. E’ sua responsabilità farsi promotrice di un ampio dibattito in seno alla nostra Collettività; un dibattito franco e sereno sulle funzioni che i nostri sodalizi, le nostre associazioni hanno svolto nella Venezuela dei pionieri e che dovranno svolgere in quella dei nostri figli; un dibattito propositivo dal quale possano emergere idee e soluzioni per combattere la crisi e mantenere in vita i luoghi che per anni hanno rappresentato il cuore dell’italianità e dell’integrazione al tempo stesso. Insomma, un salvagente per quei Centri Italiani Venezolani e quelle Case d’Italia – come ad esempio quelli di Cagua, Carora, Guarenas, Puerto Cabello, San Cristóbal ed altri ancora – che oggi lottano per sopravvivere e poco riescono a scuotere dall’indifferenza ex soci e possibili nuovi soci. E’ questo l’ultimo treno. Non possiamo permetterci il lusso di perderlo.