Lo schiavismo dietro il boom cinese

ROMA – Il giornalista Alberto Rosselli spiega che dietro il “fenomeno” produttivo cinese “non si cela soltanto la capacità del governo di Pechino di metabolizzare i dettami di una politica liberista a dire poco spregiudicata” ma anche l’“avere riscoperto un sistema infallibile atto a contenere i costi di produzione e sbaragliare la concorrenza, cioè lo schiavismo”.

Secondo il rapporto pubblicato nel 2006 dall’Organizzazione Mondiale di Indagine sulla Persecuzione del Falun Gong, citato da Rosselli, il 50% della produzione industriale e agricola cinese si avvarrebbe del lavoro coatto, sistema coordinato su larga scala da un apposito bureau governativo, l’Ufficio n. 610, incaricato tra l’altro della gestione dei “campi di rieducazione politica” del Paese, i tristemente noti laogai. Questa pratica, secondo Rosselli, contribuisce a “destabilizzare i rapporti di concorrenza tra il gigante asiatico e le potenze occidentali, spiazzate da una concorrenza in grado di avvalersi dell’apporto annuo di oltre 20 milioni di lavoratori impiegati in tutti i comparti: cantieristica, siderurgia,alimentare, tessile, telematica (tempo fa il britannico Mail on Sunday ha denunciato l’”utilizzo di schiavi” in alcuni stabilimenti cinesi in cui si assemblano i lettori mp3 più famosi al mondo)”.

Come riporta la Laogai Research Foundation, precise direttive emanate dai ministeri delle Finanze e del Lavoro, incoraggiano e regolano lo sviluppo del sistema schiavistico, anche se in sede Onu, fin dal ‘91, Pechino ha dichiarato di voler combattere questa forma di “malcostume” che sta arricchendo lobbies industriali, Stato e governatorati regionali.


I diritti di proprietà su un prodotto confezionato in una struttura penitenziaria, in un campo di lavoro o in una fabbrica che si avvale di mano d’opera gratuita – spiega Rosselli – destinato al mercato interno o all’export, risulta esentasse. Non stupisce quindi che in questi ultimi anni moltissime fabbriche siano sorte nei pressi di laogai o di carceri. A questo proposito, va ricordato che la Cina è membro dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro che dovrebbe tutelare retribuzioni e stato di salute di tutte le maestranze: proposito disatteso se si pensa che, tra il 1999 e il 2003, negli attuali 180 stabilimenti-lager che utilizzano manodopera gratuita, sono stati registrati 793 decessi e circa 20.500 tra incidenti sul lavoro e casi di contrazione di gravi patologie, soprattutto nel settore chimico.