È Morto Il cantante soul Solomon Burke

ROMA – Solomon Burke ha regalato al mondo uno dei titoli più famosi della storia della black music: “Everybody Needs Somebody to Love”, un pezzo diventato un manifesto. Lui lo ha scritto e cantato nel 1964, molti grandi l’hanno registrato, da Wilson Pickett ai Rolling Stones, ma nessuno gli ha dato lo slancio che gli hanno impresso il film dei Blues Brothers nell’indimenticabile concerto in teatro di fronte alle forze di polizia dell’Illinois. Per molti aspetti Solomon Burke rappresenta l’incarnazione del lato più rassicurante del soul: dalla data di nascita che oscilla tra il 1936 e il 1940, alla formazione in chiesa a base di gospel e alla forte componente religiosa, passando per lo stile predicatorio, la sconfinata famiglia con 21 figli e 90 nipoti e l’amore per il cibo che faceva somigliare il suo corpo a quello di un lottatore di Sumo in pensione. Come molti grandi della musica nera, anche il buon Solomon ha conosciuti alti e bassi nel corso della sua carriera, ma invece di votarsi all’autodistruzione ha risolto la faccenda facendo altro e gestendo una ditta di pompe funebri.

Sui grandi palcoscenici si è affacciato quasi subito, visto che negli anni ’60 è entrato nella squadra della Atlantic, una delle etichette decisive per la storia della musica. Il suo primo grande successo, un classico del soul, è “Cry to Me”, poi qualche anno dopo, arriverà “Everybody Needs Somebody To Love”. Il fatto è che Burke, nonostante fosse dotato di una bella voce baritonale, di una travolgente presenza scenica e di una naturale capacità di comunicare con la platea, non ha mai raggiunto la popolarità di suoi grandi colleghi come Sam Cooke, Otis Redding, Ray Charles, Aretha Franklin, Marvin Gaye, per fare solo qualche esempio. E come spesso succede, ha raccolto tardi i frutti del suo lavoro. Nel 2001 ad esempio è stato introdotto nella Rock and Roll Hall of Fame, mentre l’anno dopo ha inciso “Don’t Give Up On Me”, un album, che ha vinto un Grammy, che contiene canzoni scritte appositamente da Bob Dylan, Brian Wilson, Van Morrison, Elvis Costello e Tom Waits. Anche Zucchero ha registrato con lui una torrida versione di “Diavolo in me” che fa parte dell’album di duetti e che è stata riproposta alla Royal Albert Hall di Londra. In Italia aveva molti amici e tantissimi fan conquistati con i suoi concerti. E’ stato anche più volte protagonista dei concerto di Natale in Vaticano.

Nel 2008 ha registrato un bellissimo album prodotto da Steve Jordan, “Like a Fire”, con pezzi, tra gli altri, di Eric Clapton e Ben Harper. Nonostante la sua mole che lo portava a esibirsi seduto su di una sorta di trono, confacente al suo titolo di “King of Rock’n’Soul”, conduceva un’attività live frenetica, che lo ha visto passare per ogni genere di palcoscenici, compresi il Lincoln Center di New York, il festival di Glastonbury. Era rimasto uno dei pochi testimoni viventi della grande stagione del Soul e lui si era assunto volentieri il compito di continuare a testimoniare in nome della grande musica dell’anima. E’ morto in tournée, mentre con quel suo caratteristico entusiasmo di bonario patriarca, si apprestava a ricordare ancora una volta al mondo ‘Everybody Needs Somebody To Love’.