Giudici: “Dell’Utri meditarore tra boss e Berlusconi”

PALERMO – Il senatore Marcello Dell’Utri avrebbe svolto un’attività di ”mediazione” e si sarebbe posto quindi come ”specifico canale di collegamento” tra Cosa nostra e Silvio Berlusconi, al quale i boss avrebbero garantito ”protezione” per sè e i suoi familiari. Ma non ci sono prove di un ”patto” elettorale tra le cosche e Forza Italia, in seguito alla ”discesa in campo” del Cavaliere. Sono queste, in estrema sintesi, le motivazioni, depositate, della sentenza con la quale il 29 giugno scorso la Corte d’Appello di Palermo, presieduta da Claudio Dell’Acqua, ha condannato a sette anni di reclusione Marcello Dell’Utri per concorso esterno in associazione mafiosa. Una ‘sentenza choc’ per il Pd che definisce ”sconcertanti” le motivazioni, mentre il leader di Idv Antonio Di Pietro chiede che il premier venga ”sfiduciato” per i suoi ”rapporti ravvicinati con la mafia”.


– Nella sostanza – commenta il senatore Marcello Dell’Utri – sono le stesse accuse del primo processo. Non c’é nulla di nuovo: è una materia trita e ritrita. Io non posso fare altro che attendere fiducioso la sentenza finale della Cassazione, dopo 15 anni di processi su fatti di 36 anni fa.


Secondo i giudici, Dell’Utri ”ha apportato un consapevole e valido contributo al consolidamento e al rafforzamento del sodalizio mafioso”. In particolare, l’imputato avrebbe consentito ai boss di ”agganciare” per molti anni Berlusconi, ”una delle pù’ promettenti realtà imprenditoriali di quel periodo che di lì a qualche anno sarebbe diventata un vero e proprio impero finanziario ed economico”.


Per questi motivi la Corte ritiene ”certamente configurabile a carico di Dell’Utri il contestato reato associativo”. La Corte ricostruisce sin dalle origini i contatti e le relazioni che il parlamentare del Pdl ha avuto con esponenti di Cosa Nostra: il primo sarebbe stato Gaetano Cinà, coimputato nello stesso processo e morto prima della sentenza, con il quale le frequentazioni sarebbero cominciate negli anni ’60 a Palermo, quando Dell’Utri orbitava negli ambienti della società calcistica Bagicalupo. Attraverso Cinà, avrebbe conosciuto anche Vittorio Mangano, personaggio che ha avuto un ruolo chiave nelle vicende giudiziarie del senatore. Proprio Vittorio Mangano venne assunto come ”stalliere” nella villa di Arcore. La decisione maturò durante un incontro a metà degli anni ’70 ”negli uffici di Berlusconi” al quale parteciparono oltre a Dell’Utri, anche i boss Gaetano Cinà, Girolamo Teresi e Stefano Bontade che all’epoca era ”uno dei più importanti capimafia”.


La presenza di Mangano ad Arcore avrebbe avuto lo scopo di avvicinare Cosa Nostra a Berlusconi e nello stesso tempo assicurare ”protezione” a lui e ai suoi familiari. Il Cavaliere aveva infatti ricevuto pressioni e minacce di rapimenti. Un capitolo delle motivazioni è dedicato anche al ”pizzo per le antenne”, cioè al pagamento per la ”messa a posto” in seguito all’installazione dei ripetitori Tv della Fininvest in Sicilia. I ”collettori” sarebbero stati i fratelli Ignazio e Giovambattista Pullarà, ”eredi” dell’accordo per la protezione di Berlusconi e dei suoi familiari stipulato, tramite Dell’Utri, con Stefano Bontade (ucciso il 26 aprile del 1981 ndr) e Girolamo Teresi, vittima della lupara bianca. Per i giudici, invece, non c’è una prova certa ”nè concretamente apprezzabile” che tra il senatore Marcello dell’Utri e Cosa nostra sia stato stipulato un ”patto” politico-mafioso, dopo la nascita di Forza Italia avvenuta nel ’94. Questa ipotesi, sostenuta dall’accusa, ”difetta pertanto di quei connotati di serietà e concretezza richiesti dalla suprema corte”. I giudici sottolineano infatti la ”palese genericità delle dichiarazioni dei collaboranti” su questo punto. E ricordano che fino al 1993 i vertici mafiosi, e in particolare Leoluca Bagarella, erano impegnati a promuovere una propria formazione politica – ”Sicilia libera”.