Ecco perché i “cervelli” non rientrano in italia

ROMA – La fuga dei ricercatori italiani all’estero non fa dibattere solo in Italia: gli stessi interessati si confrontano sul web parlando delle proprie esperienze, in ogni spazio che viene messo loro a disposizione. Tra questi il portale Lei Web che tra i post dedicati alla salute ne ha uno dedicato alla “Vita da ricercatore”.
A scrivere oggi è stata Cristina Morganti-Kossmann, professore associato di neuroscienza alla Monash University del Victoria (Australia). Nel suo post, la ricercatrice spiega perché, secondo lei, nonostante la legge appena approvata, difficilmente i “cervelli” rientreranno in Italia.

“Sembra che il tema della fuga dei cervelli all’estero stia davvero occupando una buona parte delle discussioni sia di scienziati che di politici italiani – scrive Cristina Morganti-Kossmann -. L’altro ieri andavo in macchina verso l’istituto (National Trauma Research Institute) che si trova all’Alfred Hospital di Melbourne e come ogni mattina ascoltavo il programma italiano che viene trasmesso due volte al giorno alle 8 e alle 18 sul canale della SBS (Special Broadcasting Service), una rete sia televisiva che radiofonica che trasmette programmi e notiziari in oltre 70 lingue. Un’emittente molto attenta alla diffusione della cultura di tutti i gruppi etnici presenti in Australia per favorirne l’integrazione nel nuovissimo continente. Riprendo il filo.

Ascoltavo l’intervista al deputato del PD, la signora Alessia Mosca che ha preso l’iniziativa sfociata in una legge appena approvata che favorisce il rientro di ricercatori italiani dall’estero con sgravi fiscali credo fino a tre anni maggiormente vantaggiosi per le donne ricercatrici perché, ahimé, siamo ancora in minoranza rispetto ai nostri colleghi dell’altro sesso. E qui ci sarebbe anche un altro tema da approfondire per comprendere i motivi che scoraggiano le donne a intraprendere questa professione di certo non facile.
In seguito all’intervista, la giornalista ha contattato diversi ricercatori italiani residenti all’estero da Hong Kong a Londra o all’Australia per capire cosa ne pensavano del nuovo provvedimento. Non mi sono sorpresa affatto alla reazione decisamente negativa degli intervistati che trovano nei paesi che li ospitano non solo una migliore qualità di vita, ma anche maggiori risorse economiche per la ricerca, ottime infrastrutture e una semplicità burocratica tale da rendere più snelle e veloci le questioni che riguardano la gestione di istituti e dei finanziamenti per la ricerca.

Mi è infatti capitato di sentire da eccellenti colleghi italiani con cui collaboro, che lavorano presso l’Università di Milano o l’istituto privato Mario Negri, che nonostante alcuni dei loro progetti fossero stati approvati per il finanziamento, ancora nei mesi successivi i fondi non erano stati depositati nelle casse dell’istituto. Ora molti di noi sanno che la ricerca è estremamente competitiva.

Ricordo un mio carissimo collega americano che una volta disse: se hai una buona idea per un progetto, stai sicura che qualcun altro ci ha già pensato prima. La ricerca infatti dovrebbe essere supportata da una burocrazia adeguata perché ritardare gli esperimenti può pregiudicare la divulgazione di importanti scoperte mediche e di conseguenza la reputazione di gruppi di ricerca e degli istituti a cui essi appartengono”.