Libia: «10mila morti e 50mila feriti»

TRIPOLI – Diecimila morti. Tante sarebbero le vittime in Libia dall’inizio delle proteste contro il leader Muammar Gheddafi. E’ il tragico bilancio fornito da un esponente arabo del Tribunale Penale Internazionale (Tpi), interpellato dall’emittente satellitare al-Arabiya. Secondo la fonte, i feriti sarebbero oltre 50mila e sarebbe in corso una fuga di massa attraverso il confine con l’Algeria. L’esponente del Tpi ritiene che la situazione possa degenerare e arriva a ipotizzare che Gheddafi decida di usare armi chimiche per sedare la protesta.


Intanto continua a crescere il numero di militari che voltano le spalle al regime di Muammar Gheddafi. E’ di ieri la notizia di due piloti che per non eseguire l’ordine di bombardare Bengasi, si sono lanciati col paracadute e hanno lasciato precipitare l’aereo. Il fatto, riportato dal sito del quotidiano libico ‘Quryna’ considerato vicino a Seifulislam Gheddafi, è avvenuto ovest di Adjabiya.
Fonti militari hanno confermato la notizia, sostenendo che il caccia, del tipo Sukhoi 22 di fabbricazione russa, era decollato da Tripoli.


«I due piloti a bordo, Abdel Salam Atiya al-Abdali e Ali Omar Gheddafi – ha spiegato un colonnello dell’aviazione – si sono rifiutati di eseguire l’ordine di bombardare Bengasi e hanno fatto precipitare il velivolo dopo essersi lanciati con il paracadute».


Anche le unità dell’esercito libico dispiegate nella provincia di Jabal al-Akhdar, nella Cirenaica, sono passate con i manifestanti , riferisce la tv araba ‘al-Jazeera’. Mentre il direttore della fondazione Gheddafi, che fa capo al figlio del rais Seifulislam, ha annunciato di aver rassegnato le sue dimissioni «sgomento per le violenze perpetrate».


Nuove defezioni, inoltre, nel corpo diplomatico libico in segno di sostegno alla popolazione. Dopo i casi in Cina, Regno Unito, Polonia, India, Indonesia e Svezia, si è dimesso anche Salaheddin El Bishari, ambasciatore libico in Indonesia, secondo quanto scrive il Jakarta Post.


E un appello è stato rivolto dal Movimento islamico per il cambiamento in Libia all’aviazione perché prenda coraggio e, invece di lanciare bombe sui manifestanti, bombardi il compound militare di Gheddafi a Bab al-Azizia, «tagliando la testa del serpente». Rilanciato dal quotidiano pan-arabo Asharq Al-Awsat, nel testo scritto dal Movimento islamico si lancia anche un appello agli Stati arabi e alla comunità internazionale affinché intervengano in aiuto dei manifestanti in quanto Gheddafi sta distruggendo il Paese, il suo popolo, le infrastrutture dello Stato piuttosto che mantenere il potere.

LA FUGA


Lungo la strada solo porte chiuse


ROMA – Mentre un altro regime del Nord Africa, quello libico, appare sgretolarsi, inizia la fuga dei familiari del leader, in quel copione già visto nelle scorse settimane che ha accompagnato la fine di Ben Ali e Hosni Mubarak. Ma, almeno per ora, i familiari di Muammar Gheddafi incontrano sulla propria strada solo porte chiuse.


A Malta il caso più clamoroso: un aereo libico che cercava di atterrare senza autorizzazione ha perso il braccio di ferro con le autorità dell’isola – incentrato sulla penuria di carburante del velivolo – ed è stato costretto a tornare indietro. Tra le 14 persone a bordo dell’Atr42 della Libyan Airlines c’era anche la figlia di Gheddafi, Aisha, 34 anni, avvocato divenuta celebre per aver fatto parte del team legale di Saddam Hussein. Il no all’atterraggio, si apprende da fonti vicine al governo maltese, è stato deciso ‘’per non creare un precedente’’.


In Libano, invece, è stata negata l’autorizzazione all’atterraggio di un aereo privato, su cui si trovava la moglie di origine libanese del quintogenito di Gheddafi, il controverso Hannibal, e altri suoi familiari.
‘’L’aeroporto di Beirut ha ricevuto nella notte fra domenica e lunedì una richiesta delle autorità libiche per accogliere un aereo di proprietà della famiglia Gheddafi, con a bordo diverse persone fra cui Aline Skaff, la moglie di Hannibal Gheddafi, che è di origine libanese’’, ha riferito una fonte dei servizi di sicurezza, che ha chiesto di rimanere anonima: ‘’Il Libano ha respinto la richiesta’’, ha poi confermato.


Hannibal è arrivato alla ribalta delle cronache soprattutto per le sue intemperanze: a Ginevra nel 2008 fu arrestato con la moglie e rilasciato pochi giorni dopo per aver maltrattato i suoi domestici, un episodio che ha provocato una lunga, complicata crisi diplomatica fra Libia e Svizzera. E’ mistero sulla sua sorte, come su quello delle due mogli, Fatiha e Safia, e degli altri figli di Gheddafi. Il primogenito Mohammad, nato dal primo matrimonio, presiede il Comitato olimpico nazionale, ma soprattutto gestisce le telecomunicazioni del Paese.
Il quartogenito Mutassim è invece ufficiale nell’esercito libico, e in passato è stato indicato come possibile delfino. Gli unici di cui si hanno notizie certe sono il terzogenito Saadi, 36 anni, e Saif al-Islam, 38 anni. Il primo, che ha avuto una breve carriera come calciatore anche in Italia (Perugia e Sampdoria), ha tentato di presentarsi come ‘’governatore’’ a Bengasi la scorsa settimana, ritrovandosi però assediato in albergo dai rivoltosi. Ora non si sa che fine abbia fatto.


Saifè’ invece intervenuto due giorni fa in tv e apparso accanto al padre, dopo l’intervento fiume in cui il rais ha assicurato che morira’ ‘’da martire’’. Secondo gli osservatori è proprio su di lui che il rais punta nell’immediato futuro. Per il ministro Franco Frattini però si tratta di ipotesi.
– Non lo so se potrà avere un ruolo – ha detto il titolare della Farnesina.

IL RACCONTO


«Io, fuggita, ho lasciato gli amici nell’Inferno»


ROMA – ‘’Se entro domani a quest’ora non ti avrò richiamato, ci rivedremo nella casa di Dio: questo è il sangue che dobbiamo versare per la nostra libertà’’. Le ultime parole che mi dice al telefono. E’ pomeriggio inoltrato quando mi chiama A. (non faccio il suo nome perchè non so se sia vivo o morto), un poliziotto, uno di quelli buoni, che mi ha preso in simpatia dal primo giorno che ci siamo conosciuti. Me lo hanno messo alle calcagna tanto tempo fa, per controllare quello che facevo, in un Paese dove i giornalisti sono merce rara e io ero l’unica straniera ad avere un accredito stampa permanente.


“Hanno sparato a tre detenuti”, mi dice con la voce trafelata e il suo italiano stentato. Passano pochi minuti e mi richiama, “no sono sei, ne hanno uccisi sei”. Quasi certamente detenuti politici entrati in contatto con le famiglie di Bengasi che devono avergli detto della rivolta, della speranza di farcela. Si sono ribellati e la polizia non ha esitato: sei colpi per sei teste. Così si fa in Libia, da sempre. A. è terrorizzato. Mi dice che a Bengasi hanno appena ucciso un suo cugino di 23 anni. Non l’ho più sentito. E quelle 24 ore sono passate. E una delle tante ‘istantanee’ che porto con me oggi, mentre l’aereo che mi sta riportando in Italia con la mia famiglia, stacca le ruote dal suolo libico. Mi tornano in mente tanti volti, immagini, momenti vissuti su quella terra che si allontana. E mi tornano in mente gli ultimi giorni, i più difficili e drammatici. L’inferno vero a Tripoli inizia il 19 febbraio. Incontro Rhim dal macellaio della Gargaresh, una lunga arteria che porta dall’ovest della città verso il centro. Facciamo scorte di cibo perché l’aria che tira è tesa. Dentro, sul bancone di Abdhalla, è comparsa una foto di Muammar Gheddafi che campeggia sulla canna di una grande pistola esposta da tempo come trofeo. Non è chiaro se la canna sia solo un supporto per un fan del Leader o un sottile gioco dove la testa del colonnello è il bersaglio dell’arma. Questa è Tripoli da quando Bengasi e tutta la Cirenaica sono in guerra. Un posto dove ci si guarda con sospetto. Dove nessuno sa più da che parte stare. Dove il tuo vicino potrebbe trasformarsi nel tuo carnefice. Così si ascolta in silenzio la carneficina che insanguina la Cirenaica e la battaglia dei propri amici, compagni, cugini: In Libia sono una manciata di milioni e pare che tutti siano imparentati fra loro.


“Sono i più giovani quelli che stanno morendo”, mi dice Rhym. “Sono ragazzi nati negli anni 90, gente che non ha paura perché non ha già sofferto”. Poi con le lacrime che stenta a trattenere mi dice che a Bengasi sono morti due suoi conoscenti di 13 anni. Dal tardo pomeriggio del giorno prima Tripoli è attraversata dalle raffiche dei mitra che accompagnano le ore nel corso dell’intera notte, fino al mattino, quando tutto si placa. Mi muovo in una città dimezzata. Metà del traffico, di solito impossibile. Metà dei ragazzi per strada. Metà dei negozi aperti e su tutto un vento che non accenna a smettere e la stanchezza aggiunge stordimento. Ma anche paura. Chiamo amici, informatori, voglio sapere come stanno, cosa pensano che accadrà, quale sarà la prossima mossa di un capo che è in Libia da tutta la loro vita. Ma la risposta è sempre la stessa: “abbiamo paura”. Sono paralizzati. Stanno nelle loro case in attesa di qualcosa che solo loro sembrano conoscere già: la ferocia. Che non tarda. Perdo il conto dei morti perché nessuno che io conosca osa avventurarsi per la città durante la notte e non ci sono report o immagini. Noi giornalisti siamo controllati a vista. Io sono stata presa dalle forze di sicurezza in borghese solo qualche giorno prima che tutto avesse inizio a Tripoli: un avvertimento. Domenica 20 mi accorgo che mi hanno bloccato il cellulare. Scopro poi che lo hanno fatto anche ad altri tre colleghi. Il pomeriggio dello stesso giorno un impiegato della LTT, la compagnia telefonica, mi avverte che ci sarà un blocco totale delle comunicazioni. Faccio appena in tempo a chiamare il Vescovo di Tripoli, Monsignor Giovanni Martinelli. Mi racconta delle vicissitudini dei religiosi in Cirenaica. Chiese e case assaltate. Il blocco di tutte le comunicazioni è il campanello di allarme. Una notte di vera odissea: La città si svuota di cittadini e si riempie di ronde dei comitati rivoluzionari, la spina dorsale del regime libico. Armati di fucili controllano le strade e sono pronti a sparare ai manifestanti, circa 3.000 persone che si stanno riversando dalle cittadine circostanti verso il centro città. Danno fuoco a cassonetti, macchine, a tre caserme della polizia. Le raffiche di mitra accompagnano le grida, i clacson, i cori. Una notte da incubo: Molti forzano i portoni delle case per entrare negli androni.


Il discorso di Seif Al Islam, catalizza l’attenzione e subito delude i libici che credevano in lui. Il 21 febbraio è chiaro a tutti: Tripoli è nel caos. Fra supporter e manifestanti, polizia ed esercito, forze di sicurezza e mercenari, nessuno sa più a chi credere. La città è un fantasma di se stessa. Di giorno è terra di nessuno. Poi all’improvviso compaiono posti di blocco di gente in borghese e armata. E’ il momento della grande fuga. L’aeroporto è preso d’assalto. Lo spazio aereo è chiuso a tratti e attraversato da elicotteri per trasporto truppe. I mercenari di Gheddafi? Non c’è tempo nemmeno per darsi una risposta. Tutti fanno fagotto. L’aeroporto di Tripoli è un girone dell’inferno. Migliaia di persone accalcate in attesa di un volo. Fra loro molti tunisini ed egiziani terrorizzati. Il regime li ha presi di mira: è anche colpa loro se la Libia è esplosa. Io impiego due giorni a raggiungere l’aeroporto. E’ il 22 quando un charter dall’Italia ci viene a prendere. L’aereo decolla e l’applauso è liberatorio.


Dall’Iraq al Ruanda, vent’anni di genocidi


ROMA – Le notizie del massacro in Libia richiamano alla mente le atrocità commesse nel mondo negli ultimi 20 anni, a partire dall’Iraq per finire con il Sudan.


– E’ tra il 1987 e il 1988 il periodo nel quale la violenza del regime di Saddam Hussein in Iraq si rivolse con particolare ferocia contro i curdi, provocando, tra l’altro, il massacro di Halabja, considerata città martire. Il 16 marzo 1988, prima furono le bombe a martellare la città, poi i gas fecero il resto. Il ‘’regista’’ dell’attacco fu Ali Kamil Hassan al Majid, cugino e genero di Saddam Hussein e fido consigliere. Per questo fu bollato con il soprannome di ‘Ali il chimico’.


– Fra il 12 e il 18 luglio 1995 venne perpetrato il massacro di Srebrenica, una delle atrocità più sconvolgenti della guerra in Bosnia Erzegovina (1992-1995) che costò la vita a 8.300 persone secondo le cifre ufficiali, mentre secondo altre fonti locali gli scomparsi sarebbero stati più di diecimila. In quei giorni le truppe serbo-bosniache, agli ordini del generale Mladic, entrarono nella città di Srebrenica e massacrarono la popolazione musulmana.


– Risale al 1994 il genocidio perpetrato in Ruanda dagli estremisti di etnia hutu a danno dell’etnia tutsi e degli hutu moderati e nel quale morirono oltre 800.000 persone. I massacri si scatenarono dopo l’attentato del 6 aprile 1994 contro l’aereo su cui viaggiavano l’allora presidente ruandese, Juvenal Habyarimana, il suo collega burundese Cyprien Ntaryamira, molti alti funzionari di Stato e numerosi francesi. In soli cento giorni furono uccise 800 mila persone.


– La guerra civile in Darfur, scoppiata otto anni fa, secondo i dati dell’Onu, provocò fino a 300.000 morti e oltre due milioni di profughi. Il 4 marzo del 2009 la Corte penale internazionale dell’Aja (Cpi) ordinò l’arresto del presidente del Sudan Omar Hassan el Bashir per crimini di guerra e per crimini contro l’umanità.