Siria: bocche cucite in Israele ma la crisi preoccupa

TEL AVIV, 23 APR – L’ordine impartito dall’ufficio del premier israeliano Benyamin Netanyahu è stato tassativo: ”Bocche cucite”. Sulla crisi siriana nessun dirigente politico o responsabile delle forze armate vuole dunque prendere posizione, anche nel timore che qualsiasi dichiarazione possa essere travisata. Ma sulla stampa la cruenta repressione delle manifestazioni in Siria è la notizia dominante e la televisione di Stato vi ha dedicato un lungo dibattito, da cui è emerso che il presidente Bashar Assad nelle ultime settimane ha perso tempo prezioso. E che nel frattempo la dinamica rivoluzionaria ha acquistato foga. Se ciò poi sia un bene o un male per lo Stato ebraico, non è affatto chiaro.


Negli ambienti di sicurezza, spiega l’analista militare Yoav Limor, vi sono due scuole di pensiero. La prima vede sotto una luce positiva lo scossone che investe la Siria, innanzi tutto perchè esso mette in apprensione alleati temibili per Israele: Iran, gli Hezbollah libanesi nonchè Hamas che ha a Damasco i propri vertici politici. Nell’asse Teheran-Baghdad-Damasco-Beirut la Siria rappresenta un tassello essenziale: se il regime Assad dovesse cadere – afferma questa scuola di pensiero – le ripercussioni più negative sarebbero per Mahmud Ahmadinejad e Hassan Nasrallah.


Ma una seconda scuola di pensiero mette l’accento sul controllo degli arsenali di armi non convenzionali in Siria: se finissero in mani di rivoltosi, magari integralisti islamici, crescerebbe molto la minaccia sulle retrovie d’Israele. Tutto sommato, conclude questa scuola di pensiero, meglio che Assad resti in sella. Da parte sua un commentatore della televisione di Stato, Oded Granot, rileva che la crisi a Damasco ha già provocato tensioni fra Siria e Turchia. La Turchia – a suo parere – teme che un indebolimento (o anche il crollo) del regime Assad possa provocare una destabilizzazione fra la minoranza curda in Siria, con possibili riflessi oltre confine. Tayyp Erdogan, secondo Granot, da settimane preme su Assad affinchè faccia concessioni alla piazza, prima che sia troppo tardi. Ma in Siria questi appelli sono stati visti con fastidio, come una ingerenza in questioni politiche interne. Granot nota peraltro che di fronte alla crisi siriana, gli Stati Uniti sembrano privi di una strategia coerente: ”anzi, balbettano”.


Granot rileva che se all’inizio i dimostranti siriani invocavano riforme, ora esigono l’abbattimento del regime. Solo adesso, con molto ritardo, Assad sembra aver compreso la gravità della situazione. Nel frattempo dalle periferie la protesta si è estesa a centri importanti, fra cui Aleppo.


– Ormai la dinamica rivoluzionaria ha preso foga – conferma il prof. Uzi Rabi -. E’ un processo dotato di un fascino e di una inerzia propri.


E’ ancora presto per dare Assad per sconfitto, anche se ormai è chiaro, secondo Rabi, che le ”vecchie carte” – come la promessa di riforme e il ricorso alla repressione violenta – sono ormai inservibili. La lezione da comprendere è che ”gli strumenti classici del potere del XX secolo, usati da Hafez Assad, o da Saddam Hussein e simili, non funzionano più nelle società arabe del XXI secolo”.


La Siria rischia allora di entrare in un ”lungo tunnel” di instabilità, perchè il passaggio da una società autoritaria ad una democrazia necessita tempo. In Siria ci sono intellettuali laici di spicco che devono però misurarsi con i Fratelli musulmani e l’esito della partita non è prevedibile. Nel frattempo, conclude Rabi, va seguita la situazione a Damasco: se nella capitale stessa dovessero verificarsi eventi drammatici, per il regime Assad inizierebbe davvero il conto alla rovescia.