Bob Marley 30 anni dopo, reggae è nel mondo

Trent’anni fa, l’11 maggio 1981, un cancro si è portato via Bob Marley. Aveva solo 36 anni, ed era una star planetaria. Marley sta al reggae e alla musica terzo mondista come Elvis e i Beatles stanno al rock’n’roll e al pop. Senza di lui la storia della musica in levare, che è uno dei simboli della Giamaica, sarebbe rimasta un episodio circoscritto, sicuramente non sarebbe arrivata al top della classifiche nel mondo.


È indiscutibile che alla sua straordinaria vicenda abbia dato un contributo decisivo Chris Blackwell, illuminato fondatore della Island Records e gran mogul della discografia mondiale (per lui hanno inciso, King Crimson, Traffic, gli U2), che non solo ha inserito il leader dei Wailers nel circuito internazionale ma, puntando anche sul legame storico che esiste tra la Giamaica e l’Inghilterra, ha fatto sì che il reggae si diffondesse come un virus nella musica di alcune super star del rock, tipo Clapton e Rolling Stones. Marley è stato un leader naturale, un personaggio dotato di un carisma impareggiabile e della rara capacità di parlare un linguaggio universale. Per la Giamaica è una sorta di santo. E non soltanto per la convinzione con cui sosteneva la religione rasta ma anche per il ruolo di pacificatore nella politica della sua isola, un ruolo che, nonostante si definisse estraneo alla politica, gli costò un tentativo di omicidio.


Naturalmente non è stato un frutto isolato, visto che apparteneva a quella generazione che ha portato il reggae in giro per il mondo e che ha suonato e scritto musica accanto a personaggi come Peter Tosh, Bunny Livingston, per non parlare di formidabili strumentisti come Junior Marvin o Aston Barret. La verità è che, come si conviene ai grandi creatori, Marley ha saputo reinventare il reggae esaltandone le componenti soul, rhythm and blues e pop che i musicisti giamaicani ascoltavano alla radio, e consegnandogli una dimensione quasi profetica con testi che sono diventati inni universali alla pace, alla fratellanza, all’uguaglianza, perfettamente allineati con le aspirazioni collettive del suo tempo. La sintesi perfetta della simbiosi tra Bob Marley e il suo pubblico sta nel concerto di San Siro, a Milano, il 27 giugno del 1980: 100 mila persone riunite in uno stadio per un evento ai limiti del misticismo che rimane uno dei momenti di massimo benessere collettivo nelle vicende musicali (e non solo) del nostro Paese. Il suo ultimo concerto risale a tre mesi dopo, il 23 settembre a Pittsburgh. Poi il ricovero a Monaco di Baviera e quello a Miami da dove non tornerà più.


Per Bob Marley vale la stessa regola che si può applicare ad altri giganti della musica popolare: non esiste una carriera planetaria senza grandi canzoni. ”Jammin”’, ”One Love”, ”No Woman No Cry”, ”Get Up Stand Up”, ”I Shot The Sheriff”, ”Redemption Song” sono brani che vanno bel al di là del reggae. In breve: sono dei classici. L’eredità lasciata da Marley è immensa e ovviamente non riguarda solo sua moglie Rita o i figli Ziggy, Stephen e Damian che sono musicisti affermati. Sul finire degli anni ’70 Bob Marley ha fatto scoprire al grande pubblico un nuovo modo di concepire la musica e la vita, ha aperto la strada all’idea di world music, ha imposto sonorità e tematiche che appartenevano al terzo mondo e riaccostato la musica popolare al pacifismo e all’egualitarismo militanti. Sempre fedele al suo motto: ”Chi ha paura di sognare è destinato a morire”.