Brusca: «Il premier pagava il pizzo»

ROMA – Lo dice al termine dell’udienza. Ad alta voce. Senza esitazioni.
– Berlusconi potrà essere accusato di tante cose, ma con le stragi di mafia non c’entra.
Giovanni Brusca, l’ex boia di San Giuseppe Jato passato tra i ranghi dei pentiti poco dopo la cattura, non mostra incertezze. Almeno su questo. Citato a testimoniare contro il generale dei carabinieri Mario Mori, sotto processo per avere favorito Cosa nostra, oggi deve fare i conti con le omissioni di 15 anni di collaborazione con la giustizia. Nomi mai fatti, come quello dell’ex sindaco di Palermo Vito Ciancimino e quello del senatore Marcello Dell’Utri, protetti per motivi che l’ ex capomafia spiega in modo confuso e poco convincente.
– Ma oggi – dice, – parlerò di tutto. So che devo farlo da quando ho guardato negli occhi il familiare di una vittima della mafia – spiega per fugare i dubbi di coloro che vedono nella ritrovata memoria del boss sanguinario il tentativo di evitare le conseguenze della nuova indagine per riciclaggio che lo vede protagonista.

Il racconto di Brusca tocca i rapporti intavolati da Cosa nostra con la politica. E più volte viene fuori il nome di Berlusconi, vittima del pizzo e costretto a pagare 600 milioni l’anno alla cosca di Santa Maria di Gesù. Ma anche collettore del denaro dei clan perdenti di Stefano Bontade che, dice Brusca, negli anni ‘80, avrebbe investito nelle sue imprese. E infine tramite per arrivare a Bettino Craxi affinchè intervenisse in Cassazione alla vigilia del maxiprocesso che avrebbe reso definitive condanne pesantissime per i clan.
Parlando di mafia e politica èr inevitabile il riferimento alla trattativa tra Cosa nostra e lo Stato che, almeno in una fase, avrebbe visto come protagonista, secondo gli inquirenti, anche l’allora comandante del Ros Mario Mori. Una trattativa che, secondo il pentito, avrebbe avuto tre momenti storici. Il primo dopo l’omicidio dell’eurodeputato Salvo Lima, quando Dell’Utri e Ciancimino si sarebbero proposti, dice, a Totò Riina, a caccia di nuovi referenti, come i loro intermediari presso soggetti politici nazionali.
– Riina mi disse – racconta Brusca – che erano venuti a ‘portargli’ la Lega e un altro soggetto politico che stava per nascere.

Poi c’è la strage di Capaci, Falcone muore e il dialogo tra Cosa nostra e lo Stato ha altri protagonisti. Brusca non fa i nomi ma indica il ‘’terminale finale’’ nel senatore Nicola Mancino che di lì a poco sarebbe diventato ministro dell’Interno. Suoi ‘ambasciatori’ avrebbero chiesto a Riina cosa voleva per fare cessare le stragi (il pentito usa il plurale sollecitando i dubbi del collegio che gli fa notare che a quel momento di strage ce ne era stata una sola). Il boss di Corleone avrebbe risposto col ‘papello’: l’elenco di richieste che la mafia avrebbe fatto allo Stato. Nel ‘93, la cattura del padrino di Corleone, secondo il pentito, avrebbe rimescolato le carte e indotto Cosa nostra a guardare altrove.

Brusca, insieme al boss Luca Bagarella, cerca di intavolare un nuovo dialogo con le istituzioni. Stavolta mira a Silvio Berlusconi. Mangano, ben contento, avrebbe riferito a Dell’ Utri i desiderata della mafia, principalmente interessata a un alleggerimento del carcere duro. E il senatore avrebbe risposto che avrebbe visto cosa fare. Anche qui Brusca è però incerto.
Oggi il pentito usa il singolare a fa capire di non sapere se Berlusconi, vero soggetto con cui la mafia avrebbe voluto intessere un dialogo, seppe mai di quei contatti. Per sollecitare la nuova trattativa Bagarella fa le stragi con le bombe a Milano, Roma e Firenze. Provenzano era contrario, ma alla fine passa l’ala sanguinaria. L’arresto di Mangano, però, congela il dialogo. O almeno Brusca dice di non sapere come andò a finire.