Bassetti: “L’immigrazione è una ricchezza per il Paese”

Zingaropoli. Milano trasformata in una Moschea. Sono espressioni, queste, che hanno caratterizzato nei giorni scorsi, la campagna elettorale milanese; parole che cercavano sostegno in quei sentimenti di paura verso il nuovo che inutilmente hanno invocato il Pdl, la Lega Nord e, in primis, il premier Silvio Berlusconi. L’obiettivo? Risvegliare nei cittadini il timore per ciò che non si conosce ed irrompe nella nostra quotidianità sconvolgendone la “routine”. I risultati delle urne, però, hanno dato torto a chi invocava fantasmi inesistenti. La borghesia illustrata milanese, quella colta e cosmopolita che è poi la stragrande maggioranza, non si è fatta ingannare da chi faceva leva sull’ignoranza.


Piero Bassetti è uno dei più lucidi esponenti di quella borghesia milanese che, dopo un lungo silenzio, torna a far ascoltare la propria voce nell’arena politica. E lo fa con decisione e chiarezza respingendo al mittente le accuse mosse contro l’immigrazione che, afferma convinto, “rappresenta una ricchezza per la città e per il paese”.


– Le attribuisco una importanza notevolissima, fondamentale – afferma il dottor Bassetti, intervistato “via Skype” dalla “Voce” -. E parlando con lei penso di trovare un terreno fertile, un auditorio facile e sensibile. Il Venezuela è un caso classico in cui l’integrazione tra italiani e venezuelani ha determinato la storia del paese.
– La presenza italiana in Venezuela ha inciso nello sviluppo politico, economico, culturale e sociale del Venezuela. Ma questo è un fenomeno che non va circoscritto a questo paese. Si ripete, con sfumature diverse, in tutti quei paesi in cui l’emigrazione italiana è stata consistente.


– Certo – afferma -. Ma la realtà italiana, oggi, è diversa. E’, a mio giudizio, dissimetrica. Io parto dal concetto che il mondo in cui siamo immersi ha già sostituito la staticità con la mobilità. Abbiamo mandato, in passato, 4 milioni di italiani all’estero. Abbiamo praticato la mobilità “ante litteram”. Oggi dobbiamo prevedere che 7 miliardi di persone nel mondo si muoveranno sempre di più. E non per il semplice gusto di cambiare luoghi di riferimento.


Sostiene, quindi, che si è appena all’inizio di un fenomeno migratorio che prenderà forza in un futuro prossimo. Ed allora, che fare? Quali sono le alternative? Bassetti ne propone due:
– Possiamo piazzare le mitragliatrici lungo le nostre spiagge – ci dice ironico – e affondare i barconi. Quanto potrebbe durare questa situazione? Difficile dirlo. E poi non ha senso. In cambio, possiamo affrontare seriamente il problema, incoraggiando il processo d’integrazione. Se non agiamo in questa direzione, si rischia di finire come Parigi. Insomma, con quei luoghi in cui la mancata integrazione ha creato guai seri.
– La carenza di un processo d’integrazione spinge verso la ghettizzazione, in seno alla quale si sviluppa la microcriminalità. Questa, poi, si trasforma nella manovalanza delle mafie. Insomma, della criminalità organizzata.


– E’ evidente – interviene il nostro intervistato -. In una società integrata si riduce la microdelinquenza. Quando, invece, non è integrata, come non lo era quella di New York nel 1910, la criminalità cresce. E le comunità creano strutture proprie di difesa. La mafia fu una di queste.


Fa memoria. Si trasporta con la mente agli anni del “miracolo economico”. Cioè a quell’arco di tempo che ha inizio pressapoco nel 1954, quando comincia a crescere il reddito delle famiglie italiane fino a raggiungere valori da primati, e tramonta negli anni ’70, con lo shock petrolifero. Allora Bassetti era assessore del comune di Milano e gli toccò gestire l’arrivo dei “treni della speranza”. Il capoluogo lombardo, come le altre principali città del Nord, si trasformò nella Mecca di migliaia di disoccupati che fuggivano dalla miseria rincorrendo un sogno.


– A Milano – ricorda – avevamo organizzato l’assistenza in Stazione per i “treni della speranza” provenienti dalla Puglia. Lo stesso dovremmo fare ora. E prepararci a ricevere probabilmente centinaia di migliaia di immigranti. Tenga presente che a Milano ve ne sono già 200 mila. Sono circa il 12 o 13 per cento della popolazione.


Sottolinea che “negare il problema è una scemenza”.
– E’ vero, si è tentati a farlo – ammette -. Ma non si può. Non solo sarebbe una sciocchezza ma anche una immoralità, come giustamente rileva il nostro Cardinale.


A Milano, durante la campagna elettorale, sono apparsi qua e là manifesti con scritto “zingaropoli”. Bassetti invita a pensare cosa sarebbe accaduto se invece di esserci scritto quella parola in quegli stessi manifesti ci fosse stato scritto “giudeopoli”.

Quindi commenta:
– I padri Gesuiti, in una circolare, hanno fatto notare come, dopo gli ebrei, furono gli zingari ad avere il maggior numero di vittime nei campi di concentramento. In una città come Milano, che nel bene e nel male è una società avanzata, un razzismo così arretrato oltre che cattivo è anche una fesseria.


Dopo aver sottolineato che “la minaccia di una Moschea non ha comportato perdita di voti” al candidato della sinistra e dopo aver fatto notare che sono state proprio le comunità ebree a difendere le Moschee in quanto vedevano “il rischio di un razzismo religioso che avrebbe potuto coinvolgerle”, afferma che l’integrazione comporta anche difficoltà di carattere religioso.
– La gente – precisa – capisce perfettamente che gli islamici hanno bisogno di un loro luogo di preghiera, di culto, così come gli ebrei hanno la loro Sinagoga.


E prosegue:
– La destra ha commesso errori clamorosi. La borghesia illuminata di Milano certe cose le beve quando è distratta, come le bevve nel 1922 e come le ha bevute nel 1994 da Berlusconi. Poi si sveglia e dice basta. Non ci voleva molto per capire che Pisapia aveva tutte le carte in regola per essere credibile. Certo, ora bisognerà vedere come lui e la sua amministrazione sapranno dare le risposte adeguate alle sfide che sono chiamati ad affrontare.


– Come mai in Italia, che ha un passato come Paese di emigrati; che ha 4 milioni di cittadini sparsi per il mondo, attecchiscono movimenti xenofobi, razzisti?


– Lei conosce le debolezze umane – risponde Bassetti con amarezza -. Qualcuno disse una volta: “non fare agli altri quello che non vuoi che ti sia fatto”. Ho visto figli di immigrati che facevano i razzisti. Purtroppo, l’animo umano non è sempre coerente. Questa è la risposta etica. La risposta politica è che nessuno ha speso energie per spiegare agli italiani di oggi che cosa è stata l’Italia di ieri e quale è stato il ruolo svolto dall’emigrazione. E, quindi, cosa sia accaduto quando eravamo noi ad alimentarla. Questa è un’altra delle responsabilità di una classe dirigente sostanzialmente irresponsabile. Dal provincialismo alla globalizzazione. Ormai il mondo non ha più frontiere. Queste sono andate in frantumi grazie alle nuove tecnologie, alla modernità, agli strumenti della comunicazione. E’ evidente, quindi, che anche i ruoli che i cittadini sono chiamati a interpretare subiscano una trasformazione, si evolvino. Anche quelli di noi che viviamo l’Italia fuori l’Italia.


– Nel contesto di un mondo globalizzato, qual è il ruolo che lei attribuisce alle nostre comunità e alle nostre camere di commercio bi-nazionali nella promozione del “Made in Italy” e della lingua e cultura italiane?


– Una grande importanza, come lei forse già sa – ci dice immediatamente -. Una parte non trascurabile della mia vita l’ho trascorsa coltivando la convinzione che le nostre comunità siano molto importanti sia per l’Italia che per i paesi in cui risiedono e operano. Nel suo caso specifico, il Venezuela. Io, in questo momento, ho un figlio in Argentina, uno in Brasile e una figlia a San Francisco. Quindi, come vede, vivo in carne propria il problema della diaspora italiana, che è una delle forze della nostra civiltà. Devo purtroppo constatare che gli italiani, e qui devo affermare che la responsabilità è del potere in generale e non solo della destra, non lo hanno ancora capito. Credo che sia un problema psicologico: gli italiani hanno rimosso questa realtà perchè, come lei sa, il rapporto con i connazionali all’estero non è facile.


Spiega che l’emigrato, dopo aver fatto tanti sacrifici, torna in Italia e si rende conto che quella parte della famiglia che è rimasta, grazie al “miracolo economico” vive oggi meglio di lui. Ció provoca tensioni che, sostiene Bassetti, “qualche volta nel sud non sono state irrilevanti”.


E aggiunge: – L’italiano è universalista, ma anche localista e provinciale. Nel fondo, la maggior parte ignora la realtà della sua diaspora. Riteniamo che sia arrivato il momento di riconoscere che, al di là della nazione italiana, c`é una civilizzazione italiana che non parla italiano. Lei sicuramente conoscerà tante persone che pur avendo un cognome italiano non conoscono la nostra lingua. Noi li chiamiamo italici. Noi lavoriamo affinchè gli italici nel mondo possano unirsi. Ma non in senso politico.


Poi, dopo aver constatato che l’immagine dell’Italia ha subito danni a causa delle vicende giudiziarie che hanno coinvolto e, specialmente negli ultimi mesi, coinvolgono il premier, sostiene critico che l’italiano all’estero, oggi, vive una profonda contraddizione. Spiega:
– Certo, non si vergogna di essere un italico, ma ha comunque una sensazione di imbarazzo, di disagio a dire di essere figlio di uno Stato che è nelle mani di un ‘pagliaccio’ sulla scena internazionale.


Commenta che anch’egli, andando per il mondo, si è sentito a disagio, in impaccio. Ne ha detto le ragioni:
– Andando in Inghilterra o in Francia, c’era chi mi chiedeva: perchè lo votate? L’idea di avere un presidente del Consiglio che corre dietro le minorenni e che inventa sotterfugi per sottrarsi alla giustizia… Vede, è per non dovermi piú vergognare che mi sono impegnato in questa campagna elettorale.


– Germania, ma ancor più Francia, Inghilterra o Stati Uniti investono nella promozione della loro lingua e cultura. Qualora debbano decidere tagli, è “vox populi” che queste sono le ultime voci a soffrirne le conseguenze. In Italia, invece, pare non esserci altrettanta sensibilità. I tagli sono lineari. E quindi ne risente anche la proiezione internazionale del nostro paese; promozione che avviene anche, anzi a nostro avviso specialmente, attraverso la nostra cultura. Perchè questa strategia questa politica?


– E’ un argomento che va affrontato nella sua profondità – risponde -. Quello che ha detto è verissimo. Vede, i francesi, ma ancor più gli inglesi e gli spagnoli la cui lingua è parlata dalla metà del mondo, non hanno bisogno di promuoverla perchè la loro è già diventata una lingua universale. Non so se lei lo sa, ma l’Italiano è la lingua più studiata, dopo l’inglese e lo spagnolo.

Spiega che oggi si propone lo studio dell’italiano “come lingua dell’Italia e, cioè, della storia della repubblica italiana. Ma ció non interessa a nessuno. In cambio, è convinto che se lo si promuove come lingua dell’opera, della letteratura e, perchè no, anche della cucina, gli effetti sarebbero altri.

– Allora – sostiene convinto -, uno degli errori che commette l’Italia, nel promuovere la propria lingua, è difenderla come fanno i francesi e, molto di meno, i tedeschi. E cioè, come un segno della loro civilizzazione.
Afferma, allora, che in un mondo “globale, la lingua non è più un parametro”. A suo giudizio, “c’è anche arretratezza culturale”. Così ci parla di un mondo “glocal” che ha “sostituito il mondo internazionale”.

– Siamo entrati nell’era del “glocal” – ci dice -. Basare la difesa dell’italianità su strumenti che non hanno più capacità di aggregazione è un errore. Vedo che il vostro giornale ha una sezione in spagnolo. Fate benissimo. Noi abbiamo sempre aiutato i giornali italici, quelli che non sono completamente scritti in italiano. Quando ero presidente di Assocamerestero discutevo con la presidenza del Consiglio che negava i contributi a quella stampa che non era completamente in italiano. Una fesseria.

Dopo aver commentato che ebbe modo di organizzare un convegno sul tema a Filadelfia, precisa:
– Oggi non c’è più una lingua come dimensione identitaria.

Sottolinea che attribuisce un’enorme importanza ai mass-media italiani nel mondo e si pone il problema dei media informatici che, a suo giudizio, rapresentano una realtà che “non può, non deve essere sottovalutata: va presa nella giusta considerazione”. Dopo aver osservato che oggi “bisogna avere la modernità di prender coscienza dei problemi dei media che potrebbero essere idonei alla difesa di una civilizzazione italica” raccomanda:
– E’ necessario sviluppare le relazioni reticolari. Intendo dire quelle dell’italo-venezolano con l’italo-argentino, con l’italo-americano, con l’italo-tedesco… L’Italia ne avrebbe tutto da guadagnare. Noi stiamo organizzando, se ci riusciremo, una “syndiquè” che aiuti i mass media italici a far circolare non solo le notizie di quel che accade a Milano, ma anche a Caracas, a Buenos Aires a New York. Insomma, di quanto accade nel mondo italico.


“Il futuro è già iniziato”


Delicato e complesso. Ostico. Ma come non affrontarlo? Come eludere il tema economico con chi, oltre ad essere un noto industriale, è stato in passato presidente della Camera di Commercio di Milano, di Assocamerestero e Union Camere? Per questo, chiediamo:
– In uno dei suoi ultimi interventi pubblici, Emma Marcegaglia, presidente di Confindustria, non ha dubitato nel rilevare, con delusione e amarezza, che quelli appena trascorsi sono stati “10 anni persi”. Condivide l’opinione della leader degli industriali? Qual è, a suo avviso, il futuro del Paese?


– Il futuro è già iniziato.


Poi spiega:
– Viviamo in un mondo “glocale” e non più internazionale. Le risorse a nostra disposizione, quindi, vanno impiegate per dare impulso all’inserimento nelle economie globali che, di fatto, è ciò che ci ha salvati.
E’ convinto che, se oggi “non si è alla fame”, è perchè le nostre imprese si sono orientate verso lo sfruttamento del mercato globale. Ed in questo, abbiamo fatto quel che ha fatto la Germania. Poi commenta che “le nostre imprese hanno aumentato enormemente il tasso di export nei confronti del fatturato”.
– Esiste un evidente divario tra Nord e Sud – aggiunge -. Se si fa una media tra le condizioni del Sud e quelle del Nord, vien fuori una realtà contrastante.


– Anche il ministro Tremonti lo rileva e segnala che il Sud rappresenta un peso per il Nord. Ma la Svimez, in un suo recente rapporto, pur fotografando le due realtà, sostiene che il Nord solo non può. Insomma, che nonostante tutto il Nord ha bisogno del Sud.


– Ambedue le cose sono vere – risponde -. Non c’è dubbio che una parte dell’economia del Nord è assestata sullo sfruttamento dell’economia del Sud. Ma è anche vero che oggi il trasferimento delle ricchezze dal Nord al Sud, soprattutto quelle fiscali e pubbliche, è elevato. E’ un problema di cui dobbiamo occuparci senza pregiudizi.


Aggiunge, riferendosi alle dichiarazioni del ministro Tremonti, che nel suo ultimo libro illustra come “oggi l’Unità d’Italia si difenda di più in Europa che nel ministero del Tesoro”. E continua esortando le nostre Collettività all’estero a costruire nuovi rapporti con la Madrepatria; rapporti non più vincolati ai vecchi concetti ma più vicini alle nuove realtà.


Il terremoto politico: Pisapia e De Magistris


Il ministro Maroni l’ha definita senza mezzi termini una “sberla”. Ed il leader del Carroccio ha manifestato la sua delusione e preoccupazione. In seno al Pdl, in contrasto con le dichiarazioni degli esponenti di spicco, si notano le prime crepe, segnali di insofferenza. Desiderio di una svolta. E, mentre l’opposizione esulta, il premier Berlusconi incassa il colpo ed esprime ottimismo, nonostante il suo viso non sia più quello raggiante di appena pochi mesi fa. Comunque sia, il ballottaggio ha trasformato la geografia politica del Paese. E sebbene sia vero che le “elezioni di medio termine” non determinino necessariamente la sorte del governo e della sua maggioranza, è altrettanto certo che il premier non possa sottovalutare, tantomeno ignorare, il loro esito.


– Fare un’analisi di queste amministrative – ammette il dottor Bassetti – non è facile. Non lo è perchè la componente locale-amministrativa, in questa occasione, si è intrecciata con quella nazionale-politica.
Spiega che a Milano ha dominato “una situazione sociologica e politica in senso fortemente innovativo”.
– A Milano – precisa – è cambiata la forma di fare politica. Si sono trasformati gli equilibri. A Milano e a Napoli. Cito queste due città perchè qui sono stati raggiunti dei risultati con un forte grado di separazione dalla lotta dei partiti.


Sostiene che nel Sud, a Napoli, il metodo di azione politica è stato quello tradizionale. E cioè, i voti si sono spostati perchè mentre Pdl e Lega ne hanno persi, Pd, Idv e Sel ne hanno guadagnati:
– Sebbene quelli di Milano e di Napoli sembrano condurre ad un risultato comune, in realtà, nell’analisi, presentano valenze diverse – aggiunge -. C’è stata una presa d’atto dell’insoddisfazione per Berlusconi e per il suo governo. Ma è accaduto qualcosa di nuovo e significativo. I nuovi equilibri sono stati creati fuori dai partiti, dagli equilibri dei partiti. Basta segnalare che a Napoli sono stati eletti solo 4 consiglieri del Pd. A Milano è accaduta un’altra cosa.


Sostiene che “sarebbe un grosso errore affermare che il successo di Pisapia è conseguenza di una crescita del Pd”. E afferma che a Milano è avvenuto un cambiamento profondo, non solo sociologico ma anche generazionale. Insomma, “un cambiamento innovativo” che, secondo l’intervistato, è in linea “con le trasformazioni sociali che sono avvenute in una città come Milano”. Quindi, afferma, “un’analisi realizzata con strumenti tradizionali sarebbe riduttiva”. Ma, precisa, “sarebbe anche sbagliata se fatta solo in termini anomali e innovativi”.


– Negli schemi tradizionali, quelli assai comuni per chi vive da tanti anni all’estero, rappresenta un’anomalia che un esponente della borghesia milanese, anche se della borghesia illuminata, abbia sostenuto un candidato di sinistra e, per di più, un candidato considerato “molto vicino” agli ambienti ritenuti estremisti.
– Capisco queste perplessità – afferma -. Ma la società italiana è cambiata.


Dopo aver spiegato che chi vive all’estero porta spesso con se “categorie concettuali e psicologiche tradizionali”, commenta che “oggi l’Italia è molto cambiata” e che vi sono state importanti trasformazioni sociali. Sostiene che l’episodio berlusconiano – com’egli indica quasi un ventennio di “governo Berlusconi” – ha fatto apparire gli italiani po’ retrò. Lo paragona al fenomeno mussoliniano.


– La classe dirigente – spiega – non è più riconducibile in modo uniforme a schemi di classe; a categoria. E’ molto pragmatica. Il problema non è sapere se Pisapia è di origine proletaria o borghese. Pisapia è sicuramente un borghese nella sua biografia, nella sua appartenenza di ceto. Non siamo, quindi, in un ambiente culturale proletario. Non è poi un mistero che è un borghese dal punto di vista comportamentale. E questo viene apprezzato ed accettato anche dai ceti popolari di cui ha interpretato la idealità quando faceva il “rifondatore”.


E aggiunge:
– Personalizzando il voto, una persona come me non ha allergie e colloquia con persone che hanno una biografia come quella di Pisapia. So benissimo che in una città classista e tradizionale questo non è possibile. Ad esempio, nel mondo culturale di Letizia Moratti e del suo entourage, non è così che si ragiona. In cambio, lo è nel mondo che ha una formazione culturale interclassista, anche se di appartenenza sociologica borghese come lo è stata quella della Dc. Tenendo naturalmente presente che la chiesa, con il suo interclassismo, è stata sempre presente.


Dopo aver commentato che “ogni tanto assistiamo a fenomeni pessimi ma anticipatori, come è accaduto col fascismo”, ci parla di quello che considera “il cesarismo di Berlusconi” e l’uso di meccanismi di mercato e della televisione commerciale – leggasi Mediaset – per fini politici.
– Il movimento di Berlusconi – prosegue – si chiamava Forza Italia. Questo è un grido da stadio. Fa appello, quindi, alla tifoseria. E la tifoseria non è critica. Quindi, è capace di seguire il leader in maniera acritica. Questo fenomeno di arretratezza culturale è durato 17 anni, così come il fascismo ne è durato 20. Gli italiani hanno impiegato 20 anni per capire il “duce” e 17 per rendersi conto che Berlusconi è un disastro.


– Lei ha affermato che si aspetta un altro 25 luglio del 1943. A cosa si riferisce?


– Non me lo aspetto – puntualizza immediatamente ironico, per poi precisare:
– E’ già accaduto. E, a mio avviso, ne abbiamo avuti già gli effetti. Era chiaro che il Berlusconismo e l’alleanza con la Lega erano in crisi come lo era il fascismo il 25 luglio del 1943, quando gli alleati avanzavano in Sicilia. La crisi economica, le disfunsioni gravissime dello Stato, le tensioni separatiste della Lega… tutto questo, mi sia consentito dirlo, è un gran casino. Ecco, questo è un momento assai simile, anche se meno drammatico, a quello vissuto nel 1943 in Italia. Sono abbastanza anziano da poterlo ricordare.
Spiega che gli avvenimenti che si susseguirono nel 1943 misero in crisi il Gran Consiglio, così come è avvenuto oggi col centro-destra.


– Era chiaro – sottolinea scandendo le parole – che l’amministrazione Moratti era stata un fallimento; che Milano era ferma e che bisognava liberarsi. Questa espressione è stata largamente usata nella campagna elettorale. Approfittando della confusione che regnava nel ‘palazzo’, è stato facile recuperarlo. Questo, in sintesi, il senso della mia espressione. Non dimentichiamo, poi, che dopo il 25 luglio c’è stato il 25 aprile.
Non sarà facile. Milano è il centro del “fashion” e della moda. E’ il crocevia di culture. Ma, soprattutto, è il cuore dell’economia e delle finanze del Paese. Come in ogni grande città, sono tanti gli ostacoli da rimuovere.
– Lei è stato il primo presidente della Regione Lombardia eletto nelle liste della Dc. Conosce la realtà politica della regione e della città. Quali difficoltà dovrà superare Pisapia?


– Le difficoltà saranno enormi – segnala senza mezzi termini Bassetti -. Io, durante tutta la campagna, ho insistito nel dire che non viviamo più dentro i confini dello stivale. E ho sostenuto che la nostra presenza nel mondo è la prima cosa di cui dobbiamo farci carico.


Commenta che all’estero le nostre comunità si lamentano – con ragione, aggiungiamo noi –“della sordità della società italiana”. Bassetti afferma che l’emigrazione è un fenomeno interessantissimo. Nelle sue stime, “gli italici sono 250 milioni”.


– Dicevamo che i problemi di Pisapia – prosegue – sono enormi. C’è un tema “grosso modo” di sinistra.
Spiega:
– Milano è stata sempre all’avanguardia nell’ambito del welfare. Ha inventato gli ospedali così come li conosciamo. Ha sempre praticato livelli assai elevati di assistenza e di coesione. Tutto ciò si stava deteriorando. In apparenza per scarsità di mezzi, in realtà per una pessima amministrazione. Ci sono anche altri temi altrettanto importanti.


E li segnala per concludere:
– C’è stata poca attenzione nei confronti dell’educacione e alla cultura. Ed esiste un tema rilevante: quello urbanistico. Milano era in mano ad una serie di interessi fondiari. Oggi a Milano vi sono 80 mila vani sfitti. Eppure si continuano a costruire grattacieli che nessuno capisce da chi verranno utilizzati. Questa, per Pisapia, sarà una grande sfida.


Non poteva mancare un riferimento all’Expo.


– Il mio contributo personale alla programmazione di Pisapia – commenta Bassetti – è stato la sensibilizzazione al fatto che Milano è l’ottava “glocalcity” nel mondo, stando alle classifiche inglesi che ritengo del tutto attendibili. Quindi, ad esempio, non può gestire l’Expo, che ha per obiettivo nutrire il pianeta, facendosi coinvolgere in una diatriba tra i proprietari del terreno in cui gli organizzatori devono costruire il padiglione. Voglio dire, all’Expo dovremmo discutere su argomenti essenziali. Ad esempio, se ha ragione il Brasile nell’utilizzare il mais per produrre energia o no. Insomma, è la sprovincializzazione che una città come Milano non può non affermare. Ripeto, i problemi che Pisapia dovrà affrontare sono tanti e sono enormi.