Referendum: ecco cosa cambia

Nucleare, addio alle 4 centrali

Addio ad investimenti da 40 miliardi di euro, addio ai progetti per 4 nuove centrali e addio a risparmi nel costo della generazione di elettricità pari al 20%. Il sì al quesito referendario sul nucleare, con cui la maggioranza degli italiani ha bocciato per la seconda volta l’energia atomica entro i confini nazionali, si traduce nell’abbandono definitivo del programma nucleare italiano, promosso dall’allora ministro dello Sviluppo economico, Claudio Scajola, sin dal 2005 e portato poi avanti dal suo successore, Paolo Romani.
Gli obiettivi del governo partivano da un aumento dei consumi nazionali, che dai 350 TWh del 2008 dovrebbero salire a circa 400 al 2020: di questi, circa il 25% avrebbe dovuto essere prodotto con l’atomo, per una potenza richiesta di circa 13mila MWe, vale a dire 8 unità (4 centrali con 2 reattori ciascuna) da 1.600 MWe l’una. A realizzarne la metà sarebbe stata l’Enel, che in accordo con i partner francesi di Edf, prevedeva la costruzione di almeno 4 unità su 2-3 siti in tecnologia di terza generazione Epr, con la posa della prima pietra entro il 2013 e l’entrata in esercizio della prima unità nel 2020.

La realizzazione degli impianti, solo considerando l’impegno di Enel-Edf, sarebbe stata pari a 18-20 miliardi, circa 40 per l’intero programma nucleare. A fronte di questo impegno, i benefici sarebbero stati, secondo le attese, di uno risparmio del 20% sui costi di generazione; su quello ambientale, invece, la produzione di 100 TWh l’anno avrebbe fatto ridurre le emissioni di circa 35 milioni di tonnellate l’anno.

Acqua, l’ultima parola ai Comuni

Quorum raggiunto nel referendum sui quesiti 1, sulla gestione dei servizi idrici e la loro privatizzazione, e 2 sulla determinazione della tariffa del servizio idrico integrato. Ma, a detta degli esperti di settore, ora “il vero dopo-referendum lo devono decidere i Comuni. Loro sono i proprietari delle aziende in quasi tutte le città, saranno le amministrazioni comunali a dover dire se faranno gare e/o affidamenti diretti”.

Il fabbisogno di investimenti è stata stimata nel rapporto Blue Book pari a 64,12 miliardi di euro in 30 anni (2 miliardi l’anno), con una leggera prevalenza di quelli destinati a fognatura e depurazione, “attività complesse sulle quali pendono multe Ue” ricorda Federutility (Federazione delle imprese energetiche e idriche), secondo cui “l’effetto del secondo referendum, sulla remunerazione del capitale investito, è che la costruzione di opere idriche dovrebbe essere finanziato con la spesa pubblica, con l’aumento delle tasse”. Tuttavia, sottolinea il ‘Comitato referendario 2 sì per l’acqua bene comune, “l’abrogazione del decreto Ronchi richiede una nuova normativa. Dal 2007 è depositata in parlamento una legge d’iniziativa popolare, promossa dal Forum italiano dei movimenti per l’acqua con oltre 400.000 firme: dev’essere portata alla discussione di istituzioni e società. Inoltre, l’abrogazione dei profitti dall’acqua richiede la riduzione delle tariffe pagate dai cittadini, nonchè la convocazione di assemblee territoriali che definiscano tempi e modi della ripubblicizzazione del servizio idrico”.

Il settore è “unanimamente considerato di monopolio naturale, permeato di rilevanti interessi generali” si legge nel Blue Book – I dati sul Servizio Idrico Integrato in Italia, redatto da Utilitatis e Anea (Associazione nazionale Autorità e Enti di Ambito). “L’acqua è e rimane un bene pubblico” afferma Federutility.

Cade lo ‘scudo’ di premier e ministri

Con la vittoria del sì al referendum sul legittimo impedimento cade ciò che restava dello ‘scudo’ processuale di 18 mesi (fino al prossimo ottobre) che Silvio Berlusconi e i suoi ministri potevano invocare per evitare di comparire in udienza in qualità di imputati perché impegnati in funzioni di governo.

Seppur gli effetti pratici del risultato siano di portata limitata, il quesito sul legittimo impedimento è quello con maggior impatto politico perché da molti interpretato come un altolà popolare alle leggi ‘ad personam’ in fatto di giustizia. Lo ‘scudo’ era stato infatti già indebolito dalla Corte Costituzionale che il gennaio scorso aveva bocciato i punti chiave del ‘legittimo impedimento’ (legge 51 del 2010), in particolare l’impedimento continuativo fino a 6 mesi attestato dalla presidenza del consiglio e l’automatismo nell’obbligo per il giudice di riconoscere la legittimità dell’impedimento.

Con l’intervento della Consulta, dunque, il giudice aveva di nuovo ottenuto il potere di valutare “caso per caso” e “in concreto” se l’impedimento addotto dal premier dia luogo a una impossibilità assoluta a comparire in giudizio, in quanto oggettivamente indifferibile e necessariamente concomitante con l’udienza. Il tutto seguendo il “canone della leale collaborazione” tra autorità giudiziaria e potere politico. Con il referendum cadono anche quelle parti dello ‘scudo’ sopravvissute all’intervento dell’Alta Corte, in primis gli impegni istituzionali ‘tipizzati’ per legge che il premier avrebbe potuto invocare per evitare di presentarsi davanti ai giudici milanesi di uno dei quattro processi a suo carico (Mills, Mediaset, Mediatrade e caso Ruby).
D’ora innanzi Berlusconi, così come qualsiasi altro cittadino, potrà invocare l’articolo 420-ter del codice di procedura penale in base al quale chi non si presenta in giudizio a causa di una “assoluta impossibilità a comparire per caso fortuito, forza maggiore o altro legittimo impedimento” ha diritto allo slittamento dell’udienza. La legge bocciata dal voto popolare era stata varata nell’aprile del 2010 come punto di mediazione proposto dall’Udc (per la precisione dall’attuale vicepresidente del Csm, Michele Vietti) con l’obiettivo di limitare i più devastanti effetti di prescrizione del ‘processo breve’.