Il reggimento S. Marco e le regole d’ingaggio

ROMA – Il Reggimento San Marco della Marina militare, di cui fanno parte i marò coinvolti nell’uccisione dei due pescatori in India, è uno dei reparti d’elite delle Forze armate italiane: dalla fine del ‘91 il ‘San Marco’ ha sede nella nuova caserma di Brindisi intitolata alla Medaglia d’oro Ermanno Carlotto, l’ufficiale di Marina ucciso in Cina durante la Rivolta dei Boxers. Dal primo ottobre 2009 il Reggimento San Marco, insieme al Reggimento Carlotto e al Gruppo mezzi da sbarco, fa parte della neo costituita Forza da sbarco della Marina militare, che ha un organico di circa 2.100 uomini.

Il San Marco, in particolare – suddiviso in un battaglione d’assalto, uno logistico da combattimento, una compagnia operazioni navali ed una per le operazioni speciali – è l’elemento operativo e ‘proiettabile’ della Forza da Sbarco, mentre, il Carlotto provvede al supporto tecnico-logistico e formativo.

Tutto il personale della Forza da sbarco, e in particolare i fucilieri del San Marco, è sottoposto ad un addestramento intensivo, tale da garantire un grado di prontezza operativa, una mobilità e una flessibilità d’impiego fuori dal comune e in piena autonomia. Dal reggimento San Marco vengono tratti gli uomini impiegati nei cosiddetti ‘NMP’, i Nuclei militari di protezione, che dallo scorso ottobre – dopo la definizione del quadro normativo a luglio e la successiva firma di un protocollo d’intesa tra la Difesa e Confitarma, l’associazione degli armatori – vengono imbarcati sui cargo che lo richiedono, per contrastare la minaccia dei pirati.

Si tratta di personale ‘’iper-specializzato’’, come spiega il capitano di corvetta Marco Guerriero, ufficiale del reggimento che ha seguito passo passo la nascita degli NMP.

– Non solo, infatti, provengono da quella unità del San Marco addestrata specificatamente per svolgere compiti di sicurezza in mare, ma a questa formazione sommano quella di un corso ulteriore, mirato proprio ai Nuclei di protezione. Un corso durante il quale il personale viene addestrato nel dettaglio – dagli aspetti giuridici a quelli relativi alla tipologia del mercantile – per i compiti che andrà a svolgere.

Compiti che sono, essenzialmente, quelli di ‘’vigilanza, osservazione, monitoraggio – con l’ausilio di visori e strumentazioni all’avanguardia, in cooperazione con il personale della nave addetto alla sicurezza -di ogni situazione potenzialmente pericolosa per l’incolumità del mercantile e delle persone a bordo’’. Per quanto riguarda le regole d’ingaggio, queste prevedono l’uso della forza ‘’graduata e proporzionale all’offesa’’. In concreto, quando viene avvistata un’imbarcazione sospetta – perchè ad esempio si avvicina pericolosamente alla nave – in primo luogo si cerca di attirarne l’attenzione in vari modi – via radio, con segnali visivi e sonori – per fargli cambiare rotta. Se cio’ non avviene, e si notano altre stranezze, come magari la presenza di armi a bordo, l’allerta si innalza ulteriormente e si ricorre ai cosiddetti ‘warning shots, cioè dei colpi di arma da fuoco in aria a scopo dissuasivo. Poi si spara in acqua, sempre a distanza di sicurezza. Gli spari diretti sull’imbarcazione sono solo l’extrema ratio.

I ‘maró’: «Noi estranei»
ROMA – ‘’Il peschereccio si avvicinava e non ha risposto ai segnali. Che quello fosse un atteggiamento ostile, tipico di pirati intenzionati ad abbordare la nave, ce lo ha confermato il fatto che in coperta c’erano cinque persone armate. Sono state messe in atto tutte le procedure previste: a 500 metri abbiamo sparato una prima raffica di avvertimento, a 300 un’altra, a 100 l’ultima. In tutto solo 20 colpi, che sono finiti in aria e in mare, nessuno ha centrato il peschereccio. Dopo la terza raffica l’imbarcazione se n’è andata, senza aver riportato danni apparenti’’.
E’ dal primo momento che il capo del team di protezione del reggimento San Marco imbarcato sulla Enrica Lexie racconta questa storia ed anche ieri, davanti alle autorità indiane che accusano lui e un suo commilitone di aver ucciso due pescatori inermi, ribadisce:
– Noi non c’entriamo – Massimiliano Latorre e Salvatore Girone hanno messo nero su bianco la loro verità in due verbali che sono già stati consegnati alla Difesa e agli inquirenti italiani, la procura ordinaria e quella militare di Roma, che hanno aperto fascicoli per diverse ipotesi di reato. L’altro giorno, poi, sono stati sentiti da alcuni ufficiali della Marina arrivati dall’Italia per occuparsi del caso. Ieri,  infine, molto malvolentieri, hanno risposto alle domande della polizia indiana, che li ha fermati. In tutti i casi, secondo quanto si è potuto apprendere, hanno fornito la stessa versione dei fatti, che a quanto pare sarebbe confermata anche dal comandante civile della nave: quella di un tentativo di abbordaggio da parte di pirati, sventato senza conseguenze apparenti per nessuno.
Un racconto al quale le autorità indiane non credono, ma che invece sembrerebbe convincere quelle italiane, tenuto anche conto della preparazione dei due militari coinvolti: giovani, ma entrambi con diverse esperienze in teatri operativi difficili, addestrati a riconoscere le situazioni di pericolo e a farvi fronte. Due marinai che ‘’non sparano a casaccio’’, assicurano quelli che li conoscono e che, inoltre, affermano che il peschereccio visto in tv non è quello del presunto abbordaggio, di cui pare che i militari abbiano anche scattato una o più foto. Un particolare, quest’ultimo, che se confermato potrebbe rivelarsi molto importante.
A non convincere gli italiani – che in ogni caso rivendicano la giurisdizione dello stato di bandiera della nave, cioe’ l’Italia, poichè il fatto è avvenuto in acque internazionali, e ricordano che i militari sono soggetti ad immunità rispetto alle autorità straniere – sono soprattutto le numerose contraddizioni e incongruenze della versione accusatoria. A cominciare dai colpi sparati. Secondo la polizia locale, infatti, sul peschereccio si trovano i segni di 16 proiettili e 4 sono quelli che hanno ucciso i due pescatori. Questo vorrebbe dire che i due marò, sparando da centinaia di metri e senza nemmeno un colpo di avvertimento, hanno centrato l’obiettivo con tutti e 20 i proiettili complessivamente esplosi a raffica (12 uno, 8 l’altro militare): numero, questo, che risulta dai registri ufficiali e che contrasta con quello più alto (una sessantina di colpi) accreditato dalle autorità indiane.
– Ma ciò – sottolinea una fonte italiana vicina all’inchiesta – non solo è tecnicamente impossibile, ma anche assurdo, perchè e’ impensabile che in quel contesto non ci siano stati colpi di avvertimento.
Tra le altre ‘stranezze’, viene ancora sottolineato, c’è il riserbo assoluto mantenuto sia sui risultati dell’autopsia, che potrebbe risultare decisiva per capire se i pescatori sono stati colpiti dalle armi usate dai militari italiani, sia sul peschereccio, di cui si hanno solo pochissime immagini. Anche dei proiettili che hanno centrato il peschereccio, altro particolare fondamentale, non si sa nulla: che fine hanno fatto? Alla luce di ciò, da parte italiana si continua ad ipotizzare che l’uccisione dei due marittimi non abbia a che fare con il presunto attacco di pirati subito dalla petroliera italiana, cioè che si tratti di due episodi separati. A sostegno di questa tesi vi sarebbero non soltanto le numerose contraddizioni emerse tra i racconti delle due parti in causa – sui colpi sparati, sull’orario e il luogo dell’episodio, sul tipo di imbarcazione coinvolta – ma anche il fatto che l’International Maritime Bureau, un organismo che si occupa di pirateria, ha segnalato in quello stesso mercoledì un altro attacco fallito ad una petroliera da parte di 20 pirati su due imbarcazioni a due miglia e mezzo dal porto di Kochi (dove si trova ora la Enrica Lexie). L’ipotesi è che l’uccisione dei due possa essere avvenuta, in modo ancora non chiaro, in questo diverso contesto.

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