La “Domenica del Terrore” ed il processo di stabilizzazione in Afghanistan

I talebani afghani hanno dato il via ad una serie di vere e proprie iniziative militari a Kabul nel corso della mattinata di domenica. Svariati edifici della capitale, tra cui la sede del Parlamento, sono stati presi d’assalto attraverso una serie di azioni coordinate, volte a seminare il panico tra le Istituzioni, i contingenti internazionali e la popolazione. Nel mirino dei terroristi il compound del Presidente Karzai, la casa del Vicepresidente Khalili, diverse basi Nato, il centro della “International Security Assistance Force” (la “Forza Internazionale di Sicurezza ed Assistenza” costituita su mandato del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite nel 2001 con il compito di sorvegliare la capitale del Paese e la vicina base aerea di Bagram) nonché alcuni dei più prestigiosi hotel della città.
Sotto attacco anche il quartiere super protetto delle ambasciate, la cosiddetta green zone, dove ci sono state almeno sette esplosioni ed una lunga serie di sparatorie. Le sedi diplomatiche di Iran, Russia e Germania sono state assaltate, mentre alcune granate sono state lanciate contro una residenza usata dai funzionari britannici. La Farnesina ha spiegato in una nota che per ora «il personale italiano non è in pericolo».
Il bilancio ha già i contorni di un vero e proprio bollettino di guerra. Il Ministero della Difesa ha infatti reso noto che le forze di sicurezza locali hanno ucciso più di 40 talebani. Tra le vittime anche otto membri delle forze di sicurezza. Contrastanti, invece, le notizie riguardanti il numero di civili che potrebbero essere rimasti coinvolti nei combattimenti.
Il portavoce dei talebani Zabiullah Mujahid ha rivendicato la responsabilità degli attacchi attraverso un messaggio inviato ad “Associated Press”. «Decine dei nostri coraggiosi mujaheddin, armati in modo pesante, stanno partecipando alle operazioni di Kabul». Una ritorsione «per le copie di corano bruciate in una base Nato, per il video dei marine che urinano sui cadaveri di nemici e per il massacro del sergente Usa a Kandahar». E questo è solo l’inizio «dell’offensiva di primavera».
Il prologo a questo sconcertante scenario di caos era stato il violento scambio di accuse maturato nei giorni scorsi tra i terroristi e l’Ambasciatore americano in Afghanistan, Ryan Crocker. La vendetta alla fine è scattata ed i seguaci del Mullah Omar hanno deciso di passare dalle parole ai fatti.
La Nato ha immediatamente assicurato che i gravi episodi avvenuti a Kabul non modificheranno il processo di transizione in Afghanistan e ha ribadito che entro il 2014, ossia quando l’Alleanza completerà il ritiro delle truppe, le forze di sicurezza locali prenderanno il pieno controllo del proprio Paese. «Gli attacchi erano pianificati e ben coordinati ma, grazie alle forze afghane, non hanno causato vittime in massa», in particolar modo nel campo non talebano. Questo è quanto ha affermato la portavoce della Nato, Oana Lungescu. «L’esercito afghano – ha continuato la portavoce – si è dimostrato capace di respingere le incursioni e proprio questa efficacia segnala la necessità di rispettare il calendario della transizione». In ogni caso, ha avvertito Lungescu, «questi attacchi non sono di certo i primi né tantomeno saranno gli ultimi».
In realtà, il graduale passaggio delle responsabilità nel mantenimento della sicurezza dalle forze americane ed alleate alle autorità afghane dipenderà più dalle oggettive condizioni del quadro interno del Paese che da un calendario predeterminato. Gli effettivi progressi nell’addestramento delle forze di sicurezza locali e soprattutto il processo politico di riconciliazione nazionale saranno pertanto determinanti al fine di stabilire se la transizione potrà effettivamente essere completata entro il 2014, anno che rappresenta un orizzonte temporale utile per coordinare gli sforzi per la stabilizzazione regionale, oppure no.
Prove generali del futuro assetto del Paese dunque. La domenica del terrore viene rivendicata da entrambe le parti in causa come una schiacciante dimostrazione della propria forza: per i talebani è la prova che sono in grado di colpire come e quando vogliono; per il Governo, che le forze militari afghane possono benissimo difendersi da sole.
Una sola certezza: la situazione resta assai difficile da decifrare. Soltanto alcuni giorni fa, il presidente Karzai aveva annunciato la nomina del nuovo Capo dell’Alto Consiglio di Pace: non un nome qualsiasi, bensì il figlio dell’ex-Presidente Burhanuddin Rabbani, ultima speranza nelle trattative di pace con i terroristi, ucciso da un talebano suicida poco più di un anno fa nella sua casa di Kabul.
Secondo l’intelligence afghana, l’omicidio di Rabbani sarebbe stato organizzato grazie alla connivenza pakistana. Da mesi, in molte delle provincie lungo la frontiera, è cresciuta la presenza di gruppi jihadisti pakistani, che esercitano forti pressioni sulla popolazione locale. Estorcono tasse per le provviste di armi ed il mantenimento dell’organizzazione, impongono multe e punizioni corporali per chi infrange i codici talebani, che vanno dal numero massimo di pecore per la dote delle spose al divieto di ascoltare musica o masticare tabacco.
Dopo la morte di Rabbani, Karzai sembra aver capito che le chiavi della pace in Afghanistan sono in mani pakistane. Gli obbiettivi del presidente sono guidati più dal pragmatismo politico che da alti principi morali. Dal 2006, infatti, i talebani hanno sistematicamente fatto fuori i leader tribali della regione di Kandhar, tradizionale roccaforte del Presidente. Le oltre 150 vittime cadute sotto i colpi dei terroristi hanno tagliato fuori Karzai da ogni possibilità di accordo con le comunità Pashtun, e fatto crollare il suo prestigio nell’area.
Nel disperato tentativo di riconquistare appoggi, Karzai si è lanciato così alla ricerca di alleanze ed accordi (non esattamente trasparenti) un po’ con tutti, amici e nemici compresi. La nomina del figlio di Rabbani, per esempio, definito un «mellifluo diplomatico educato in Occidente», doveva servire per tenere buona l’opposizione. Controbilanciata da quella di Karim Khurram, personaggio la cui vicinanza al Pakistan è nota e discussa, come Segretario Generale. Ma a giudicare dagli eventi di domenica scorsa, non è detto che quella del Presidente sia una politica vincente. Al contrario, secondo fonti locali, potrebbe rivelarsi un vero disastro: «La nuova strada politica che Karzai ha scelto non distruggerà solo lui, ma l’intero Paese. E’ una specie di suicidio annunciato». Auguriamoci che le cose non stiano effettivamente così.
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Luca Marfé

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