Analisi – Venezuela, inizia la stagione post-Chávez

CARACAS – Dubbi, perplessità. Il Venezuela, il 5 marzo alle 16:25, ha chiuso un capitolo di storia e, tra mille incognite e nessuna certezza, ha inaugurato la stagione post-Chàvez.

Dopo il comunicato letto la sera del 4 marzo, in cui si dava notizia dell’aggravarsi della già delicata salute del presidente Chàvez, anche i più restii avevano preso coscienza che la lunga lotta del Capo dello Stato contro il cancro era entrata in una fase disperata. Ma, anche così, l’annuncio del vicepresidente Nicolàs Maduro, con la voce rotta dalla commozione, è stato accolto se non con sorpresa sì con una sensazione di smarrimento. La morte del presidente Chàvez è stata, per il Paese, un profondo shock. I venezolani, sia coloro che lo amavano come coloro che lo osteggiavano, si sono trovati improvvisamente orfani del leader che, per 14 anni, ha governato il Paese, trasformandolo profondamente.

Il “comandante”, lo stesso che ironicamente era riuscito a conquistare il potere attraverso i meccanismi di quella democrazia che aveva messo in pericolo con il fallito “golpe” del 4 febbraio 1992; che abbandonato il potere, dopo un tentativo di colpo di Stato nel 2002, era stato riportato in trionfo dai suoi sostenitori a Miraflores dopo meno di 48 ore; che neanche uno sciopero generale ad oltranza riusciva a piegare, ha perso la sua ultima battaglia: quella per la vita. La sua è stata una lunga lotta iniziata nel giugno del 2011, quando gli venne diagnosticato un cancro, e conclusa dopo una grande sofferenza il 5 marzo scorso.

Chàvez, lasciando da parte ogni altro giudizio, è stato un leader con un grande carisma. Lascia una profonda traccia non solo in Venezuela ma in tutta l’America Latina. Grande comunicatore, capace di entusiasmare le masse, con un linguaggio semplice, chiaro,  colloquiale ha saputo seminare la speranza di una vita migliore tra i più umili; tra la popolazione più povera che lo ammirava. Con il suo linguaggio intriso di populismo e demagogia è riuscito a cambiare il venezuelano dei “barrios”che oggi vive nello sconforto, per aver perso l’uomo da cui si sentiva capito, e nell’ansia, per non sapere quale sarà il suo futuro.

Il Venezuela oggi, forse, vive la più grande delle sue contraddizioni. Non è più il paese che era ieri ma, nello stesso tempo, è quello di sempre: un paese ricco con un numero eccessivo di poveri  che vivono nei quartieri più violenti di questa parte del continente americano.

Il vicepresidente Maduro, il delfino designato dallo stesso Chàvez, farà di tutto per evitare che la “revoluciòn bonita” – Chàvez dixit – si estingua. Ma la sua è un’eredità pesante. Il cammino che dovrà intraprendere sarà fitto d’insidie; costellato da tantissimi problemi economici che reclamano una soluzione.

La “revoluciòn bonita”, promossa per creare un’economia diversa, capace di uno sviluppo indipendente dal petrolio, è diventata paradosalmente schiava dell’”oro nero”. E’ il petrolio che gli procura le risorse necessarie per finanziare le “misiones”, gli ammortizzatori sociali indispensabili in un paese in cui il tasso di povertà è ancora esageratamente alto e il primo datore di lavoro è il governo.

Il vicepresidente Maduro dovrà affrontare, senza altre dilazioni, la crisi dell’apparato produttivo che neanche l’incremento dei consumi è riuscito a rimettere in moto. C’è inoltre una crisi di fiducia che ha risvolti negativi negli investimenti stranieri che oggi  guardano altrove.

L’inflazione, poi, resta sempre una “bomba ad orologeria”. Il costo della vita è contenuto artificialmente dalla proibizione di incremento nei prezzi degli articoli di prima necessità e dalle importazioni provenienti dal sud del continente, importazioni che sopperiscono al deficit nella produzione nazionale. L’inflazione è una tassa al consumo; un fenomeno economico che colpisce proprio le fasce più povere dei consumatori, quelle che vanno necessariamente protette.

Il Venezuela, con la sua fragile democrazia, è centrale per gli equilibri dell’America Latina e, ancor più, per quelli del Mercosur. La “revoluciòn bonita” che ha portato l’assistenza sociale di base alle popolazioni più umili grazie alla “Misiòn Barrio Adentro” (ambulatori costruiti nei quartieri più poveri) e ha avviato un processo di alfabetizzazione, a dire il vero già iniziato anni addietro, grazie alla “misiòn Samuel Robinson” prima e a quelle “Ribas” e “Sucre” successivamente, non è riuscita nella sua lotta alla criminalità. Né ha saputo frenare la corruzione.

Il disagio sociale, che nonostante tutto esiste ancora, è uno dei cavalli di battaglia dell’opposizione che cresce fino ad insidiare il potere. La Costituzione paradossalmente, pur lasciando ampi margini all’interpretazione, mette a sua volta paletti ben precisi in casi in cui si crea un vuoto di potere, come accaduto con la morte del presidente Chàvez. Si deve tornare alle urne e il ritorno alle urne rappresenta una incognita. Solo si ha la certezza, ma anche questa relativa, che i candidati che si scontreranno nel prossimo capitolo elettorale saranno il vicepresidente Nicolàs Maduro e il governatore dello Stato Miranda, Henrique Capriles Radonski. Il primo, forte del sostegno datogli dal presidente Chàvez e dall’apparente unità del partito di governo; il secondo, dell’appoggio di una trentina di partiti confluiti nella “Mesa de la Unità” e dall’aver percorso in lungo e in largo il Paese durante la scorsa campagna elettorale.

Qualunque sia l’esito delle elezioni, il prossimo Presidente erediterà un paese difficile da governare. Dovrà emendare errori, rendere ancora più effettive le “misiones”, sviluppare un apparato produttivo nel quale dovranno convivere l’industria pubblica con quella privata, la proprietà sociale e le cooperative. Una matassa complessa, che richiederà una buona dose di diplomazia, coscienza sociale e personalità. E, soprattutto, la convinzione che il Paese non è più quello che, nel 1998, il presidente Hugo Chàvez Frìas ricevette dall’allora presidente Rafael Caldera.

Aurelio Perna

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