Lavorare per morire

Il primo maggio é trascorso da poco e in molti paesi, non in tutti, si é celebrata la festa dei lavoratori. Anche la nostra costituzione dice che l’Italia é una repubblica fondata sul lavoro. Giá, termine importante é il ‘lavoro’, etimologicamente derivante dal latino labor, ovvero faticare. Occorre quindi faticare, stancarsi, sudare per poter parlare di lavoro. E’ la nostra natura umana che ce lo impone, come condizione necessaria, anche dal punto di vista morale e persino religioso, per portare a casa il cibo e la giusta ricompensa; appunto, una ricompensa giusta e meritata, equilibrata e proporzionata alle responsabilitá, ai requisiti ed ai rischi che ciascun lavoro comporta.

Non sempre nella gestione del lavoro si obbedisce ai canoni della giustizia. Proprio la settimana scorsa, a nord di Dhaka, in Bangladesh, é crollato il Rana Plaza, un edificio in cui erano ammassate centinaia di persone, intente a lavorare indirettamente per le grandi griffe occidentali. Purtroppo, non meno di sei mesi fa un incendio aveva provocato la morte di oltre cento lavoratori che producevano vestiti per il colosso americano WalMart.

Piú o meno tutte le catene ed i grandi colossi del tessile affermano di essere molto dispiaciuti e di non essere a conoscenza dell’esistenza di tale fabbriche. Pur non volendo dubitare della veridicitá di tali affermazioni, é certo che tali gruppi conoscono bene i meccanismi di supply-chain, ovvero tutte le tappe della catena di produzione di un prodotto, nel dettaglio (almeno quello finanziario, che é quello che ahimé conta di piú). Pertanto, se ben é certo che nessun manager occidentale conosca personalmente neppure uno solo degli impiegati che sono morti mentre lavoravano in Bangladesh, essi sanno bene il ruolo essenziale che ricoprono gli intermediari: aziende sub-appaltatrici che spingono tantissimo sulla competitivitá, tenendo incredibilmente bassi i costi, per poter offrire al mondo occidentali prezzi d’occasione e permettendo, in virtú della vendita massiva su larghissima scala, a tali multinazionali del tessile, haute-couture e non, di fare profitti spaventosi.

Il sistema del capitalismo selvaggio si muove proprio su questa linea sottile del diritto, della giustizia e della necessitá di generare la parola magica di cui tanto si parla: il lavoro. Infatti, si ritiene che sia colpa dei singoli governi e non delle case produttrici di beni di abbigliamento, se le aziende sub-appaltatrici non obbediscono e non rispettano le regole in materia di sicurezza e prevenzione; in fondo,essi sono come dei benefattori, che generano lavoro in terre in cui il lavoro non c’é. Purtroppo, occorre anche ricordare che il sistema é (mai piú opportunamente di adesso) un abito tagliato su misura per favorire i grandi gruppi multinazionali, rendendo perfettamente legale le doppie fatturazioni, il tanto celebrato e incravattato outsourcing, che permette sostanzialmente ed effettivamente a chiunque di poter operare dove piú gli convenga; in buona sostanza di delocalizzare su scala globale.

Si rischia, scrivendo su certi temi, di sfociare nel qualunquismo e nella generalizzazione e, perché no, in molta ipocrisia. E’ vero che qualsiasi imprenditore ha il legittimo e giustissimo diritto di fare profitto con la propria azienda, avvantaggiandosi di leggi che gli permettono di farlo; dico di piú, é obbligato a farlo se vuole rimanere competitivo in una logica di libera concorrenza e di libero mercato. Tuttavia non si possono rimuovere le barriere etiche che esistono tanto per i singoli individui quanto per le aziende. Tutti gridiamo allo scandalo quando succedono fatti come quelli in Bangladesh, quando bimbi e operai lavorano e muoiono per una paga indegna, quasi, anzi, sempre accettata per disperazione. Pochi di noi, peró, riescono a fare a meno di comprare per il gusto di comprare, di fare shopping per attenuare lo stress quotidiano e, magari, per ostentare la propria ascesa sociale. Se é vero che per una fabbrica che crolla in Bangladesh molte altre ne nascono in altrettante o peggiori condizioni, é anche vero che tutto questo non succederebbe se si staccasse la spina a ció che davvero alimenta questo sistema perverso: la richiesta di beni superflui da parte di noi occidentali. Un mea culpa doveroso, in una giornata cosí importante.

Andrea De Vizio

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Twitter: @andreadevizio

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