Videla muore in carcere. Dittatore dei desaparecidos

BUENOS AIRES. – Jorge Rafael Videla, l’uomo simbolo della feroce dittatura argentina e della tragedia dei desaparecidos, è morto ieri a 87 anni in una prigione della provincia di Buenos Aires. La notizia è arrivata in città di prima mattina, subito seguita da un’ondata di reazioni sui media e nelle reti sociali, tutte improntate alla condanna dell’ex generale ”genocida” e ai ricordi degli anni di piombo nel paese. A dare la notizia non sono stati i suoi familiari, ma la moglie di un militare, Cecilia Pando, la quale ha raccontato che l’ex generale aveva avuto un malore e per questo non aveva voluto mangiare: ‘E’ morto Videla nel carcere di Marcos Paz’, ha scritto su Twitter la donna, nota per difendere non solo l’autore del golpe del ’76, ma anche diversi militari. Poco dopo, le autorità carcerarie hanno confermato che Videla ”è morto alle 8.25” nella sua cella del carcere di Marcos Paz, dove era rinchiuso nel padiglione dei condannati per crimini contro l’umanità, in compagnia cioè di altri 25 militari ‘represores’, colpevoli di torture e di casi di desaparecidos. La notizia ha subito monopolizzato i media che hanno dato spazio a commenti e rievocazioni degli anni del regime. E riportato alla memoria di tanti argentini il terrore di quella seconda metà degli anni ’70. Alcune delle immagini ormai storiche viste in tv sono agghiaccianti. Molte reti hanno puntato sulle scene della finale dei mondiali di calcio del 1978, quando al fischio finale che decretò il trionfo della nazionale argentina Videla alzò le braccia in segno di giubilo nello stadio del River Plate. A pochi isolati, nella famigerata Scuola di meccanica della marina (Esma), centinaia di desaparecidos torturati languivano in cella. Alcuni di loro vennero poi gettati narcotizzati e ancora vivi da un aereo nelle acque del Rio de la Plata in quelli che a Buenos Aires sono noti come ‘i voli della morte’. Alcuni siti web hanno invece pubblicato fotografie dell’ex dittatore che lo mostrano in cella seduto sul suo letto, con alle spalle un grande crocifisso. Videla recitava infatti il rosario tutti i pomeriggi e andava regolarmente a messa. ”Credo che Dio non mi abbia mai abbandonato”, affermò qualche mese fa in un’intervista al giornalista Ceferino Reato. Sui rapporti all’epoca tra i militari e la Chiesa – tema spesso al centro di polemiche, riemerse in occasione dell’elezione di Papa Bergoglio – si è riferita tra gli altri la leader delle nonne di Plaza de Mayo, Estela de Carlotto. ”Non si era mai pentito e rivendicava i suoi delitti”, ha accusato, accennando inoltre al fatto che la Chiesa ha ”in parte accompagnato” quanto fatto da Videla, che ”ora starà rispondendo in altre sedi dei suoi delitti”. Molte delle dichiarazioni di queste ore sottolineano che l’ex dittatore non è morto a casa sua, in libertà, ma in un carcere senza godere di alcuna impunità. A ricordarlo sono soprattutto i familiari delle vittime, ma anche il governo della presidente Cristina Fernandez de Kirchner, la leader di un peronismo che ha avuto proprio nei militari – e per tanti anni – il principale nemico storico.

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