Boston, Frattoli: “Sono i nipoti gli eredi della nostra cultura”

BOSTON – Se è vero che i primi emigranti italiani giunti a Boston, nella seconda metà dell’ottocento, si stabilirono a Orient Height, una collina nell’East Boston lo è anche che, oggigiorno, è il North End, Hanover Street ad essere precisi, la zona che, nel nostro immaginario, più si avvicina al concetto di “Little Italy”. Ed é, infatti, Hanover Street, una lunga stradina sempre molto frequentata e con tanti generi alimentari, bar, pasticcerie, gelaterie e – “last but not least”, per dirla all’americana – tanti ristoranti, il luogo in cui ritroviamo odori e sapori nostrani. In questo fazzoletto tricolore, incontriamo Donato Frattoli, abruzzese “doc” e titolare del “Ristorante Lucia”, uno dei più rinomati fra quanti popolano la “Little Italy” del Massachusetts.

– Negli anni ’70, quando decisi di emigrare con la famiglia a Boston – ci racconta Frattoli, frugando nei ricordi -, questa zona, questo quartiere era abitato da tanti, tantissimi italiani. Oggi non é più così. Cosa é accaduto? – domanda retorica, questa, alla quale dà subito una risposta:

– Oggigiorno chi viene in America, non fa più un salto nel buio. Non sente più l’urgenza di ritrovarsi con i connazionali. I giovani che decidono oggi di lasciare l’Italia per recarsi negli Stati Uniti, grazie alla web e ai social-network, hanno già amicizie in loco. Si scrivono con giovani americani. Ed è per questo che non cercano più l’italiano, non sentono il bisogno di cercare i connazionali. Oggi la nostra comunità é più dispersa.

Notiamo, specialmente nelle sue ultime parole, una certa amarezza. Gliela facciamo notare:

– Nostalgia e solitudine sono sempre state le malattie dei nostri pionieri. Per i giovani che arrivano in questo periodo le cose sono diverse. Grazie alle amicizie fatte via internet, i nuovi emigranti possono affrontare la loro avventura con più serenità?

– Sì, è vero; ed é una cosa meravigliosa – ammette -. Ma… – c’é sempre un “ma” – ci si confonde, ci si smarrisce nel resto della società. Si è perso quel bisogno di incontrarsi che sentivamo noi…

Una breve pausa, un momento d’incertezza e prosegue.

– I figli, comunque, conservano la nostra cultura, le nostre tradizioni. A casa siamo gelosi del nostro modo di essere. Poi i giovani, com’è normale, si divertono… a loro piace provare, sperimentare cose nuove, emozioni nuove.

Spiega che gli italiani all’estero ci tengono molto alle loro tradizioni, alla propria cultura, e conservano gelosamente quei ricordi che rappresentano, nel loro insieme, un tesoro incommensurabile da consegnare alle generazioni future. Insomma, un’eredità che ha un immenso valore.

Commenta, poi, che quando si torna in Italia dopo anni trascorsi all’estero, si scopre un Paese nuovo, diverso da quello dal quale si è partiti e che è rimasto vivo nei ricordi. Sono cambiati i borghi che si frequentavano e “tante famiglie conosciute si sono trasferite in altri quartieri o addirittura in altre città”.

– Anche il dialetto – prosegue – non è più lo stesso. In Italia ha avuto un’evoluzione. Nel bene o nel male é cambiato. Ma non tra chi vive all’estero. Così, a volte, é difficile anche riprendere la comunicazione con vecchi amici o conoscenze.

– Come é cambiata la nostra comunità di Boston?

– Qui a Boston, nel Massachusetts – ci dice – operano tante associazioni regionali; numerosi enti culturali italo-americani. Questi, nel loro insieme, aiutano a preservare le nostre tradizioni. Almeno nel Massachusetts sono circa una cinquantina.

Racconta che nel North End, fino a una quindicina di anni fa, non c’era fine settimana senza che associazioni o enti italo-americani organizzassero qualcosa. C’erano le feste della Madonna, quella di San Antonio oppure quella di San Giuseppe e così via di seguito. Oggi non più. Spiega:

– Ieri erano i pionieri a mantenere salde le tradizioni. Oggi sono i nostri nipoti, cittadini americani a tutti gli effetti. E poi, nel quartiere, nell’area del North End, sono poche le famiglie italo-americane che ancora vi abitano. Certo – prosegue – si continua ad organizzare feste e manifestazioni, ma non con la stessa frequenza.

– Qual é secondo lei il rapporto  con l’Italia delle seconde e terze generazioni, perché ormai di queste si tratta…

– I miei nipoti… – commenta -; i miei nipoti, anche se viaggiano ogni anno in Italia, non hanno la stessa passione ch’io conservo inalterata. La mia famiglia ha fatto di tutto, e ancora continua a fare di tutto, per promuovere l’Italia e i suoi prodotti… ma il rapporto dei nipoti con la nostra Madrepatria é diverso. Loro sono italo-americani.

– E le manifestazioni di intolleranza e di razzismo nei confronti degli italiani?

Non risponde immediatamente. Cerca le parole esatte, soppesa ogni frase, anche i gesti. Ma è solo un momento, poi riacquista spontaneità e schiettezza.

– In passato ho spesso trovato – ci confessa -, un po’ di ostilità. Storie di discriminazioni ce ne sono state tante – sottolinea, per poi ricordare con nostalgia:

– Ma nel 1994, quando si disputarono i mondiali di calcio negli Stati uniti… si scatenò un tifo enorme attorno alla nostra nazionale. Fu un tifo genuino, spontaneo. Potei assistere ad una grande cosa, ad un fenomeno veramente emozionante: improvvisamente tutti volevano essere italiani, tutti indossavano la maglia azzurra. Vedevi persone che fino ad allora si erano odiate, che si detestavano o, comunque, non si frequentavano, festeggiare insieme i trionfi degli azzurri. Lo sport… penso che lo sport e le canzoni hanno il dono, la forza di unire le persone.

Non manca una confessione, fatta forse a malincuore e con tanta amarezza da Frattoli che, si nota, é un appassionato di calcio:

– Prima l’italiano negli Stati Uniti pensava solo al pallone. Ora non più. Ora molti preferiscono il baseball. Chi viene per la prima volta negli Stati Uniti non chiede di andare a vedere una partita di calcio ma di baseball. La televisione, la web hanno contribuito a trasformare i gusti.

– Gli Stati Uniti sono un paese immenso, un continente. Che cosa cambia, da Stato  a Stato, nelle nostre comunità degli Stati Uniti…?

– Ormai tutto il mondo é paese – ci dice -. Quello che si trova a NY lo ritrovi a Boston, a San Francisco o a Chicago.

Per concludere, Frattoli commenta:

– La differenza tra la vecchia e la nuova emigrazione bisogna ricercarla soprattutto nelle comunicazioni. Una volta, quando si emigrava, nessuno sapeva cosa avrebbe trovato nel nuovo paese, né quando sarebbe potuto tornare in Italia. Ci si scriveva… ma le lettere arrivavano dopo una settimana, quindici giorni. Oggi la televisione ti mette in contatto immediatamente con quanto sta accadendo nel resto del mondo e il telefono, la web ti permettono una comunicazione in tempo reale. Le tecnologie hanno reso la vita più semplice. Le distanze non esistono più.

La perseveranza dell’emigrante
Il “Ristorante Lucia”, uno dei più rinomati della “Little Italy”, é decorato con semplicità e buon gusto. Appena se ne varca la soglia si respira un clima familiare. C’é un’atmosfera di serena tranquillità che contrasta con la vita agitata della metropoli.

– Il ristorante – racconta Donato Frattoli senza nascondere il proprio orgoglio – é stato inaugurato nel 1976. Quando emigrammo nel 1969, iniziammo tutti a lavorare nei ristoranti della città. Solo mio fratello Tonino era cuoco, avendo imparato e fatto esperienza in Italia.

Non furono anni facili. Solo il coraggio, la forza di volontà e la perseveranza dell’emigrante permisero ai Frattoli di superare ostacoli che ad altri sarebbero apparsi insormontabili, di non farsi abbattere dalle delusioni degli insuccessi e di avere la forza di rialzarsi dopo ogni caduta con rinnovato entusiasmo; entusiasmo che ancora oggi conservano intatto.

– Mio fratello Filippo sempre ci diceva: “Dobbiamo aprire un ristorante” – prosegue nel suo racconto -. Alla fine ci convinse. Così, nel 1974 inaugurammo il nostro primo ristorante. Eravamo dei ragazzi con tanto entusiasmo ma nessuna esperienza. Nonostante i tanti sacrifici, dopo appena un anno e mezzo fummo costretti a chiudere. Ma non trascorse molto tempo senza che Filippo riuscisse a convincerci di nuovo. Tutta la famiglia ci mise il maggior impegno. Così, nel 1976, inaugurammo il “Ristorante Lucia”. Lo chiamammo così in onore di nostra madre. L’anno scorso abbiamo celebrato i 35 anni della nostra creatura

Una famiglia di ristoratori
Non è solo una passione ma parte del loro Dna. La famiglia Frattoli, tutta la famiglia Frattoli, la ristorazione ce l’ha nel sangue. Ed infatti, 10 anni dopo aver aperto il “Ristorante Lucia” nella “Little Italy”, Frattoli ha aperto un nuovo locale, con lo stesso nome, in una bellissima città a una manciata di chilometri da Boston: Winchester.

– Nel 1989, poi – afferma -, abbiamo inaugurato il “Ristorante Filippo”. Poco dopo, ho aperto due locali col nome di “Artù”, uno proprio qui vicino ed un altro in centro. Dal canto suo – aggiunge -, mio nipote ha inaugurato una pizzeria. Si chiama “Ducale”. Ed ora mio figlio sta aprendo il suo primo ristorante, sempre in questa zona. Non so ancora che nome gli darà.

– Insomma, avete invaso Boston – commentiamo.

Frattoli sorride e spiega:

– La ristorazione ci ha dato tanto. E’ un’attività che ci ha sempre dato tante soddisfazioni.

– Come avete cambiato il gusto degli americani?

– Negli anni ’70, la cucina italiana era, in realtà, adattata ai gusti americani – spiega -. I sapori erano diversi dai nostri. Con il trascorrere degli anni, specialmente con i viaggi, il gusto degli americani é cominciato a cambiare. E dagli anni ’80 ad oggi é diventato molto esigente. L’americano, ora, pretende i prodotti e sapori genuini della cucina italiana, mediterranea.

Sottolinea che gli ingredienti con cui si cucina nel “Ristorante Lucia” sono in gran parte importati dall’Italia, così come i vini.

– Noi – conclude – usiamo solo olio vergine d’oliva italiano. Ogni qualvolta torniamo dall’Italia portiamo un gran numero di spezie. A Boston l’uso dell’aceto balsamico lo abbiamo introdotto e imposto noi. Abbiamo dovuto rompere la diffidenza dell’americano e ci siamo riusciti. Oggi sono i nostri clienti ad esigere i migliori prodotti italiani.

Mauro Bafile

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