“Ecco prove contro Assad”, Obama verso l’attacco

NEW YORK  – Gli Stati Uniti sono pronti, assieme alla Francia, a punire il regime siriano di Assad. Il presidente Barack Obama ha affermato di non avere ancora preso “una decisione finale” ma sulla sua determinazione non ha lasciato dubbi quando ha aggiunto che l’uso di armi chimiche in Siria é “una sfida al mondo” e “una minaccia ad alleati degli Usa come Israele, Turchia e Giordania”, “una minaccia agli interessi della sicurezza nazionale americana”. Parole che arrivano poco dopo una durissima dichiarazione del segretario di Stato John Kerry. Almeno 1.429 persone, tra cui 426 bambini, sono morte a causa dei gas letali usati il 21 agosto alle porte di Damasco, ha detto presentando il rapporto dell’intelligence americana che inchioda l’ “assassino” Assad alle sue responsabilità.

– Questo é l’indiscriminato, inconcepibile orrore delle armi chimiche – ha sottolineato -. E’ ció che Assad ha fatto al suo stesso popolo.

Kerry ha ribadito la determinazione americana ad agire contro il regime siriano, e dopo il ‘dietro-front’ di Londra, Obama ha fatto sapere che potrebbe lanciare anche da solo una azione militare. Il condizionale é d’obbligo, ma l’attacco ora sembra di nuovo, e più che mai, imminente. A fianco di Obama ci sarà comunque “il più vecchio alleato degli Usa”, la Francia, come l’ha definita Kerry, rendendo omaggio al presidente francese Hollande che a sua volta preme sull’acceleratore e non esclude di passare all’azione quanto prima, senza attendere la riunione straordinaria del Parlamento francese, prevista per mercoledì.

Gli ispettori dell’Onu hanno ormai finito il loro lavoro sul campo. Oggi saranno all’Aja, ma per il risultato dei test ci vorrà del tempo. Washington ha invece diffuso il suo atteso rapporto di quattro pagine sul dossier di intelligence raccolto dagli Usa, in cui si citano in particolare le intercettazioni di comunicazioni di ”un alto esponente del regime profondamente connesso con l’offensiva, che ha confermato l’uso di armi chimiche da parte del regime il 21 agosto”.

E per scacciare antichi fantasmi, Kerry ha sottolineato che le informazioni raccolte sono solide, e gli Usa non hanno alcuna intenzione di ”ripetere gli errori” commessi per l’Iraq, quando il suo predecessore Colin Powell espose di fronte al Consiglio di Sicurezza Onu ‘le prove’ che dimostravano il presunto possesso di armi di distruzioni di massa da parte di Saddam Hussein, poi mai trovate. Nè tantomeno sarà un’operazione stile Iraq o Afghanistan.

– Non ci saranno truppe sul terreno e sarà un’azione limitata nel tempo – ha assicurato.

Kerry ha sottolineato anche che ”dopo 10 anni l’America é stanca della guerra”.

– E anche io – ha aggiunto -. Ma abbiamo le nostre responsabilità di fronte al mondo.

Il segretario alla Difesa Chuck Hagel ha affermato nelle ultime ore che “il nostro approccio é quello di continuare a cercare una coalizione internazionale che agirà di concerto”, ma non sembra più un imperativo.

– Ció che viene preso in considerazione é di una natura così limitata, che non é necessario che vi siano anche altre capacità di altri Paesi – ha d’altro canto affermato una fonte dell’amministrazione dopo che anche la Nato si è chiamata definitivamente fuori.

Hollande non intende tuttavia minimizzare la complessità di un blitz:

– Ci sono pochi Paesi che hanno la capacità di infliggere una sanzione con i modi appropriati. Noi siamo pronti – ha affermato.

Mosca intanto continua a non arrendersi all’inevitabilità di un attacco: azioni che oltrepassino il Consiglio di sicurezza dell’Onu, ”se si verificassero, attenterebbero gravemente al sistema basato sul ruolo centrale delle Nazioni Unite, dando un colpo serio all’ordine mondiale”, ha tuonato il Cremlino.

Il vice ministro degli Esteri Ghennadi Gatilov ha ribadito dal canto suo che il governo russo rimane contrario ”a qualsiasi risoluzione del Consiglio di sicurezza dell’Onu che possa essere usata per un’azione di forza contro la Siria”. La cancelliera Angela Merkel spera però che la Russia cambi atteggiamento all’Onu, affinchè si arrivi a una posizione comune sulla Siria; così come la ministro degli Esteri Emma Bonino, secondo cui ”anche se sembra più lento, più duro e a volte sembra non riuscire, la pressione diplomatica e politica è l’unica soluzione perseguibile”.

Il feudo di Assad attende l’attacco con il fiato sospeso
L’ancestrale terrore delle persecuzioni a sfondo confessionale domina in queste ore gli abitanti di Qirdaha, luogo natale della famiglia presidenziale Assad al potere in Siria da quasi mezzo secolo, e di tutta la regione costiera abitata in larga parte dalla minoranza alawita sciita: a lungo discriminata, nella storia, da poteri politici centrali vari, soprattutto per ragioni economiche e sociali.

Come racconta Anat M., un’attivista siriana alawita, originaria proprio di Qirdaha, a est del capoluogo Latakia e a poche decine di chilometri dalla linea del fronte tra lealisti pro-Assad e brigate di estremisti sunniti, ”in città la paura si è impadronita anche degli oppositori del regime”. Anat è a Beirut dopo aver lasciato Qirdaha e preferisce parlare senza svelare il cognome ”per non mettere in pericolo la famiglia”.

Il fatto di essere alawiti – ”nusayiri”, secondo il termine usato ormai in modo dispregiativo dai fondamentalisti islamici – li rende ”miscredenti” agli occhi dei jihadisti sempre più numerosi nei ranghi degli insorti. E quindi persone da eliminare. Nei giorni scorsi sono venute alla luce le conferme da parte di attivisti della regione costiera delle notizie di una strage di oltre cento civili alawiti uccisi all’inizio di agosto da bande di miliziani guidati da libici e ceceni accorsi nelle file dei ribelli anti-Assad più radicali.

Tra gli alawiti, un per cento degli oltre 22 milioni di siriani, si contano numerosissimi membri delle forze fedeli agli Assad, ma anche una fetta minoritaria di dissidenti, alcuni provenienti dalla stessa Qirdaha.

In città sorge il mausoleo a Hafez al Assad, padre dell’attuale raìs e per trent’anni e fino alla morte nel giugno 2000 indiscusso padrone della Siria.

– Ma Qirdaha è storicamente divisa tra clan rivali – afferma l’attivista in una chiacchierata con l’Ansa -. Quando gli Assad arrivarono al potere (nel novembre del 1970) queste famiglie erano contro di loro e alcuni dissidenti, tra cui membri del clan Kheir, furono incarcerati e uccisi.

Adesso però, all’ombra delle minacce di un possibile attacco occidentale contro obiettivi del regime, ”a Qirdaha si teme che il fronte dei jihadisti venga favorito e che costoro possano giungere alle nostre porte”. Anche per questo la cittadina, annidata sulle montagne che sovrastano la costa mediterranea, ”è da tempo trasformata in un fortino. Ci sono due diverse milizie del regime e c’è l’esercito regolare che organizza posti di blocco e controlli”.

Nei quartieri abitati dai clan più ostili agli Assad la gente peraltro non ha smesso di mormorare.

– Ci si chiede perché il regime protegga così solo Qirdaha e lasci che altri centri alawiti vengano abbandonati alle razzie delle milizie. Ma in ogni caso – conclude Inat – le voci su un eventuale intervento straniero hanno serrato le fila degli alawiti di Qirdaha e di tutta la regione.

Per loro, ormai, ”è questione di vita o di morte”.

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