16 ottobre 1943, razzia ebrei in mostra la vita quotidiana

ROMA. – Dalla A di Berta Abramsohn alla Z di Zaira Zarfati, passando per i Terracina, Piperno, Spizzichino. E’ con un muro di nomi, esattamente 1.022 vite, anime e futuri spezzati, che si apre il viaggio nel tempo di ”16 ottobre 1943 – La razzia degli ebrei di Roma”, mostra che da domani fino al 30 novembre racconterà al Complesso del Vittoriano una delle pagine più terribili della storia recente, la deportazione romana di 70 anni fa. Una ferita mai chiusa, per il cui ricordo sono arrivati al museo il presidente del Senato Pietro Grasso, il ministro dei Beni culturali Massimo Brani, Renzo Gattegna e Riccardo Pacifici, presidenti dell’Unione delle Comunità Ebraiche italiane e di quella di Roma, insieme a molte famiglie delle vittime, e alla quale il curatore Marcello Pezzetti ha voluto restituire i volti, delle vittime e, per la prima volta, anche dei carnefici. ”Non c’è mai stata una mostra sul 16 ottobre – spiega Pezzetti – anche se fu la prima e la più grande deportazione d’Italia.

La mostra è dedicata soprattutto agli studenti. Secondo me dovremmo farne una versione itinerante”. Volutamente, il racconto parte molto prima del ’43, quando, all’inizio del secolo, gli ebrei a Roma sono perfettamente integrati nella società, professionisti, commercianti o persino ammiragli della prima guerra mondiale. ”Nessuno si aspettava quello che sarebbe accaduto”, dice il curatore. E invece eccoli lì, uno accanto all’altro i ritratti dei carnefici, da Theodor Dannecker a Herbert Kappler, e ”per la prima volta anche di alcuni dei 365 riservisti tedeschi e austriaci” chiamati come rinforzo per il progetto diabolico di una deportazione che volevano di 8 mila ebrei.

”Fino ad oggi non sapevamo chi fossero – spiega ancora Pezzetti -. Erano uomini comuni, impreparati, infatti riuscirono a prendere ‘solo’ 1.250 ebrei”. A testimoniare la confusione di quei giorni, anche un telegramma del vicariato che proibiva al convento teresiano di accogliere ebrei il 16 ottobre. E ancora, i foglietti scritti a macchina in italiano con cui i tedeschi facevano capire i loro ordini dopo le irruzioni in casa: prendete vestiti, gioielli, cibo per 8 giorni e nessuno, neanche i malati, deve rimanere indietro. Una dettagliatissima mappa racconta come il rastrellamento attraversò tutta la città, con singoli ebrei pescati fino in periferia e non solo nel ghetto. E poi, la telecronaca disegnata dal pittore Aldo Gay su quelle drammatiche ore, le video interviste dell’Archivio della Memoria e della Spielberg Foundation e della Fondazione Museo della Shoah, i bigliettini d’aiuto lanciati dal treno della morte in partenza dalla stazione Tiburtina.

E soprattutto una galleria fatta di fotografie, giocattoli, vestitini, diari, a ricordare ancora una volta che quelle vittime erano mamme, bambini, nonni, ragazzi. C’è chi riconosce commosso il papà e chi si rivede ragazzo, come Lello Di Segni, 87 anni e unico sopravvissuto alla deportazione che vive ancora a Roma. ”Un viaggio dolorosissimo – commenta Bray – e insieme un’occasione importante, perché la cultura serve a tutelare il patrimonio, ma anche la memoria. Mi auguro serva a capire che c’era un disegno preciso, che nulla accadde per caso”. ”E’ una giornata della memoria – conclude Grasso – che deve insegnare ai giovani cosa non deve mai più accadere”.

(Daniela Giammusso/ANSA)