Siria, distrutti gli impianti delle armi chimiche

DAMASCO. – L’arsenale di gas tossici di Damasco non è più una minaccia per la popolazione siriana o per altri Paesi. Se ne è detta convinta oggi l’Organizzazione per la proibizione delle armi chimiche (Opac), sottolineando che i suoi esperti hanno completato la distruzione degli impianti per la loro produzione e utilizzo. Ma i lanci di razzi sui sobborghi ribelli che a Damasco si odono anche in pieno giorno ricordano che, sebbene per armi convenzionali, si continua a morire, mentre stamani Israele ha attaccato dal mare una batteria di missili mobili antinave Yakhunt nella città costiera di Latakia. Un attacco riportato subito dalla tv degli sciiti libanesi Hezbollah, Al Manar, sul quale non si registrano dichiarazioni del governo israeliano ma confermato in serata da fonti dell’amministrazione Obama alla Cnn. Secondo queste ultime, l’obiettivo del blitz era “impedire il trasferimento di missili” proprio a Hezbollah. Ma intanto l’Opac ha completato la neutralizzazione delle armi chimiche siriane: “La Siria non può più produrre né utilizzare armi chimiche”, ha detto all’ANSA Sausan Ghosheh, portavoce della missione congiunta Opac-Onu, avviata sulla base di un accordo russo-americano sancito da una risoluzione del Consiglio di Sicurezza dell’Onu. Risoluzione che in settembre ha evitato un intervento armato di Washington dopo un bombardamento con gas tossici che il 21 agosto aveva ucciso centinaia di civili in alcune località controllate dagli insorti intorno alla capitale. Un attacco compiuto dal regime secondo gli Usa e altri Paesi occidentali, una provocazione degli stessi ribelli secondo il presidente siriano Bashar al Assad. Ottimista la prima reazione dagli Stati Uniti: il segretario di Stato per la non proliferazione, Thomas Countryman, si è detto “fiducioso” che entro la data prevista del 30 giugno 2014 si potrà arrivare alla completa distruzione degli arsenali siriani di armi proibite. “La risoluzione del Consiglio di sicurezza” dell’Onu “evidentemente ha funzionato, ne siamo molto contenti”, ha affermato da parte sua il ministro degli Esteri Emma Bonino. Il primo passo, ha precisato l’Opac, è stato compiuto con “la distruzione funzionale di tutte le strutture dichiarate” da Damasco per la produzione dei gas tossici e il loro caricamento nelle testate. Quest’opera, sottolinea l’organizzazione vincitrice del Premi Nobel per la Pace, è stata compiuta in 21 dei 23 siti identificati. Altri due non hanno potuto essere controllati a causa dei combattimenti, ma il materiale che vi era custodito è stato “trasferito presso altre strutture dichiarate dove è stato ispezionato”. Entro il 15 novembre l’Opac e la Siria dovranno raggiungere un accordo sul programma di eliminazione delle scorte di armi chimiche prodotte, che dovrà appunto essere ultimata entro la metà del prossimo anno. La soddisfazione per l’annuncio odierno non può far dimenticare che i morti per le armi chimiche sono stati un’esigua minoranza sul totale delle vittime di questo conflitto, che continua ad uccidere. Oltre 120.000 persone hanno perso la vita nelle violenze degli ultimi due anni e mezzo, secondo un ultimo bilancio dell’ong Osservatorio nazionale per i diritti umani in Siria (Ondus). Damasco, intanto, si è ormai assuefatta alla ‘normalità’ della guerra. Oggi, primo giorno del fine settimana islamico (giovedì e venerdì) migliaia di automobili hanno intasato la strada che porta verso le località montane di Barada e Rabweh. Poco prima bambini ordinati erano usciti dalle scuole del centro, mentre i mezzi della nettezza urbana lavavano le strade. Il tutto, però, al rumore dei razzi che ogni tanto, in raffiche di tre o quattro, vengono lanciati dalle posizioni governative sul Monte Qassiun, che sovrasta a nord-ovest la città, in direzione dei sobborghi ribelli. In particolare su quello di Muaddimiya, assediato da un anno dalle forze governative e dove diverse persone, secondo attivisti dell’opposizione, sono morte per fame. Il traffico era ingolfato anche in mattinata sui 45 chilometri dal confine libanese alla capitale a causa dei sette posti di blocco gestiti da forze armate e apparati vari della sicurezza. Mentre in città si vedono circolare volontari armati, alcuni anche anziani, dei comitati di autodifesa di quartiere.