Libia: Impianto gas assediato, Scaroni teme stop dell’export

ROMA. – E’ di nuovo allarme gas dalla Libia. A otto mesi dalla crisi che a marzo scorso, in seguito a scontri a fuoco nell’impianto di Mellitah, impose la chiusura del gasdotto Greenstream che porta il metano dal Paese nordafricano a Gela, il copione potrebbe ripetersi: uomini armati della comunità berbera Amazigh continuano infatti a protestare nell’impianto, partecipato al 50% dall’Eni, tanto che l’ad del gruppo petrolifero, Paolo Scaroni, avverte che le esportazioni verso l’Italia potrebbero essere bloccate. “Proprio in queste ore il terminal di Mellitah da cui parte il Greenstream, che raggiunge la Sicilia, è sotto attacco da parte di manifestanti che ci stanno spingendo a chiudere completamente le esportazioni verso l’Italia”, ha annunciato Scaroni parlando a Radio 1. Uno scenario, ha tuttavia aggiunto, che per il momento non desta particolare preoccupazione sul fronte dei consumi, perché non ci sarebbero “problemi di approvvigionamento” per il nostro Paese, dal momento che di idrocarburi ce ne sono molti “da tante parti del mondo” e inoltre stiamo godendo di un clima “particolarmente benevolo”. Stando ai dati di Snam Rete Gas, comunque, le importazioni verso Gela al momento non stanno subendo interruzioni: il flusso previsto di 12,7 milioni di metri cubi di gas sta arrivando regolarmente. Anche il portavoce di Noc, il gruppo libico che detiene l’altra quota del 50% di Mellitah, Mohamed Elharari, ha riferito che l’intero complesso sta marciando regolarmente e che non ci sono interruzioni del flusso di gas. I manifestanti, tuttavia, una trentina di uomini della comunità berbera Amazigh della città di Zuwara che hanno iniziato a protestare 10 giorni fa nell’impianto situato nella parte occidentale del paese, minacciano di bloccare nelle ore a venire il gasdotto, a meno che governo e Congresso Generale Nazionale non acconsentano alle loro richieste tra cui il riconoscimento delle peculiarità culturali e il principio di consenso per gruppi minoritari. Se la situazione dovesse precipitare, si riproporrebbe in sostanza quanto accaduto a marzo scorso, quando l’Eni decise di bloccare l’attività per un paio di giorni in seguito a scontri a fuoco tra milizie rivali divampati nei pressi dell’impianto. Una volta raggiunto l’accordo, la produzione ripartì abbastanza velocemente, ma per far tornare alla normalità il flusso di metano ci volle circa una settimana. Niente rispetto a quanto accadde nel corso della rivoluzione anti-Gheddafi, quando il gasdotto, nel 2011, rimase chiuso per otto mesi. Del resto in quel periodo tutta l’attività dell’Eni nel Paese nordafricano subì uno stop, che influì pesantemente sui conti del gruppo italiano. Da allora la situazione si è quasi normalizzata e l’Eni, malgrado le perplessità per l’instabilità politico-istituzionale, ha ripreso a puntare fortemente sul Paese nordafricano: a dicembre scorso ha infatti annunciato un piano di investimenti da 8 miliardi di dollari per lo sviluppo delle produzioni già esistenti e per nuove attività esplorative nei prossimi dieci anni.