Ruanda: Vent’anni fa i giorni del genocidio e dell’odio

ROMA. – “Dovete sterminare tutti gli scarafaggi”. “Le tombe sono riempite solo a metà: chi vuole aiutarci a riempirle del tutto?”: due frasi terribili ma esemplari dell’incitamento alla violenza “vomitato” vent’anni fa 24 ore su 24 da un’emittente hutu sui suoi ascoltatori in Ruanda. Gli “scarafaggi” erano i tutsi, la minoranza che però aveva in mano tutte le leve del potere, politiche, militari, economiche. E che gli hutu avevano deciso di sterminare, a costo di fare a pezzi anche persone della loro stessa etnia, contrarie allo sterminio. L’orgia di sangue e di terrore, secondo le cifre ufficializzate anni dopo a seguito dell’incessante ritrovamento di fosse comuni, provocò in soli tre mesi un milione di morti e due milioni di profughi e si lasciò alle spalle centinaia di bambini mutilati con asce e machete, di bambine stuprate che ancor oggi non possono, e non vogliono, dimenticare. Poi ci fu il colera, 80-90mila morti accertati in Ruanda, ma anche nel vicino Burundi e nei campi profughi del confinante Zaire che oggi, dopo un’altra sanguinosa guerra civile, si chiama Congo (Repubblica democratica del Congo). Solo allora cominciò a uscire dal suo “torpore” la comunità internazionale che per quasi tre anni era stata alla finestra a guardare, riempiendo le sedi di giornali e televisioni di comunicati attendisti e retorici che elaboravano tattiche, senza produrre azioni concrete realmente efficaci. D’altra parte se il genocidio – senza precedenti dopo la Seconda Guerra Mondiale e di cui lunedì a Kigali, capitale del Ruanda, si aprono le commemorazioni – è cronologicamente “fissato” in tre mesi del 1994 (aprile, maggio e giugno), in realtà la conflittualità interetnica tra hutu e tutsi era entrata in una fase sempre più sanguinosa già nel 1992. Ma la guerra di sterminio vera e propria avvenne in seguito all’abbattimento, il 7 aprile 1994, dell’aereo con a bordo i presidenti del Ruanda, Juvenal Habyarimana, e del Burundi, Cyprien Ntaryamira, di ritorno da un vertice in Tanzania dove erano andati proprio per tentare di trovare una soluzione agli scontri fra le etnie dell’area. La loro morte, rimasta a tutt’oggi un mistero, scatenò la mattanza, nella sostanziale indifferenza delle diplomazie internazionali. Indifferenza dovuta, a giudizio degli osservatori, anche alla storia della colonizzazione tedesca e belga: nel 1896 i primi coloni tedeschi trovarono il Ruanda in preda a lotte intestine tra i tutsi, minoritari ma fisicamente più “belli”, alteri e aitanti guerrieri, e gli hutu, agricoltori piccoli di statura il cui nome stesso voleva dire “servo”. Decisero così che i tutsi (neanche il 14% della popolazione) erano la “razza superiore” locale, destinata a dominare i contadini negro-bantù. Il Belgio si impadronì del Ruanda e del Burundi dopo la Prima guerra mondiale e mantenne il sistema lasciato dai tedeschi, accentuando le discriminazioni: ai tutsi rimase gran parte del potere politico, militare ed economico. L’odio atavico crebbe e quando il Ruanda nel 1961 ottenne l’indipendenza si compirono le prime vendette, saccheggi, atrocità. Nell’emulare l’orrore portato dai colonizzatori, la maggioranza degli hutu imparò in fretta a mutilare per far soffrire prima di uccidere e a decapitare con destrezza i bambini di fronte alle madri. Fino al genocidio del ’94. Ora, dopo vent’anni, il Ruanda cerca di guardare avanti. “Ricordare, unire, rinnovare”, si legge su grandi cartelloni installati agli incroci della capitale Kigali. La politica é diventata in gran parte “femminile” ma la sfida resta aperta, le radici dell’odio non sono ancora del tutto estirpate. (Rossella Benevenia/Ansa)