Gabriella Mantovani: “La mia vita è cambiata profondamente in poche ore”

CARACAS – “ La mia vita è cambiata profondamente in poche ore. Oggi il mio tempo è scandito solamente dalle visite a mio figlio nel carcere di Yare III”. Poche parole che illustrano il dramma di Gabriella Mantovani la cui quotidianità è stata improvvisamente sconvolta. Javier Alessandro Manguilo Mantovani, suo figlio, (18 anni) è stato recluso assieme ad altri studenti nel carcere di Yare III. Non ha ucciso, non ha rubato, non ha truffato, non ha trafficato con droghe e non é neanche un tossico dipendente. L’unica colpa, se di colpa si può parlare, è stata quella di trovarsi nel luogo sbagliato nel momento meno indicato: a Santa Fe, quartiere dove abita, durante una delle tante proteste contro il Governo. Il suo arresto, e la successiva reclusione, assieme ad altri studenti, nel Carcere di Yare III decisa dal Giudice del “Tribunal 41 de Control”, è stata la prima conseguenza della risoluzione dell’Alta Corte di criminalizzare la protesta attraverso una interpretazione restrittiva dell’Articolo 68 della Costituzione, quello che stabilisce che tutti i “cittadini hanno diritto a manifestare pacificamente e senza armi senza altri requisiti se non quelli che stabilisce la Legge”. Il “TSJ” ha deliberato che la libertà di manifestare non costituisce “un diritto assoluto” per cui ogni manifestazione di protesta deve essere autorizzata e può essere repressa dalle Forze dell’Ordine.

E’ la prima volta, dagli anni bui della dittatura militare di Marcos Pèrez Jimènez, che alcuni studenti sono reclusi in un carcere per aver presuntamente partecipato a una protesta. I governi democratici, che si sono susseguiti fino ad oggi – compreso quello dell’estinto presidente Chàvez – avevano tollerato la protesta ed anche gli eccessi dei quali, a volte, studenti e cittadini si sono resi colpevoli; eccessi considerati appena qualche settimana fa il prezzo che la democrazia  venezuelana, come quella di tanti altri paesi, deve pagare per non vivere nuovamente un passato che brucia nella memoria, un passato fatto di errori ed orrori, di carcere e di torture e, purtroppo, anche di “desaparecidos”.

– Mio figlio – ci dice Mantovani – è un ragazzo come tanti altri; un ragazzo tranquillo che non ha mai creato problemi. Si è diplomato con ottimi voti nel “Colegio Claret” a Caracas. E’ stato il terzo miglior studente quell’anno. Quando nella cerimonia di consegna dei diplomi fu fatto il suo nome – ricorda con legittimo orgoglio di madre – tutti i professori si alzarono ad applaudirlo. E’ un ragazzo cui piace divertirsi ma non è amante delle feste o delle discoteche.

Concluso il liceo Javier presenta l’esame di ammissione alla prestigiosa ‘Universidad Simòn Bolìvar’. Occupa il 138esimo posto tra più di 8mila aspiranti. E prima della disavventura che lo ha portato a Yare III, studiava il secondo trimestre nella Facoltà di Ingegneria Elettrica.

– Come ha saputo dell’arresto di Javier?

Un attimo di silenzio. Gli occhi stanchi e arrossati da notti di insonnio e sicuramente momenti di sconforto accompagnati da lunghi pianti, trattengono a stento le lacrime.

– Quel giorno erano circa le 2:30 quando cominciai a chiamarlo al telefonino – racconta -. Volevo sapere come stava, dove stava… se era tornato a casa. Ma il suo cellulare risultava spento. Verso le 3:30 fu lui a scrivermi un sms dicendo che stava bene, che lo avevano arrestato e portato  a Fuerte Tiuna. Mi scrisse anche un numero di telefono, quello della madre di un altro ragazzo arrestato. Fu quella signora che confermò quanto scritto da Javier.

– Cosa ha pensato in quel momento?

– Ero confusa… non si può spiegare a parole ciò che ho provato – ci dice -. Ricordo che mi misi subito al telefono… a pensare a chi mi avrebbe potuto aiutare. Non sapevo veramente chi chiamare, a chi rivolgermi. Non avevo mai vissuto una situazione del genere, mai avuto di questi problemi. Tutti coloro cui ho telefonato mi hanno dato un consiglio, hanno avuto parole di conforto nei miei riguardi, mi hanno procurato il numero di telefono di avvocati. Mi misi in contatto con il padre di Javier – prosegue – e lui si è immediatamente comunicato con i legali del ‘Foro Penal Venezuelano’. Sono stati loro a dirci con precisione il luogo dove, a Fuerte Tiuna, era stato portato Javier.

Una volta a Fuerte Tiuna viene a sapere, attraverso altre madri, che il giovane era stato accompagnato a Bello Monte, nella sede della ‘medicina forense’ per la visita medica di rito. Da lì Javier fu subito portato agli uffici del “Cuerpo de Investigaciones Cientìficas, Penales y Criminalìsticas”, poi al “Servicio Administrativo de Indentificaciòn, Migraciòn y Extranerìa” e, quindi, alla “Jefatura El Recreo”, dove trascorse la notte, prima di essere condotto in Tribunale.

– In Tribunale – prosegue col racconto -, avendo amici avvocati, sono riuscita ad entrare nell’aula in cui si celebrava il dibattimento e dove erano tutti i ragazzi. Quando il Giudice ha comunicato la decisione, gli studenti sono scoppiati a piangere. Sono tutti ragazzi che mai e poi mai avrebbero pensato di finire in un carcere. Io ho abbracciato Javier e poi anche gli altri studenti per non farli sentire soli, per far capire loro che non li avremmo abbandonati.

La voce di Mantovani si fa fioca. Si nota che fa difficoltà a parlare, che ha un nodo alla gola. Le sue parole sono rotte dall’emozione e dal dolore.

– In un primo momento – ci dice -, si era parlato del carcere di Tocoròn. Poi, invece, hanno deciso di portarli a quello di Yare III. Quest’ultimo, ci è stato detto, pare sia più tranquillo, forse più sicuro.

Certo. Ma è una sicurezza relativa, come lo è la vita in un carcere del Venezuela. È ancora vivo il ricordo di  quanto é accaduto a Giuseppe Sibilli, il connazionale nato a Napoli nel 1955, arrestato in Venezuela il 5 febbraio del 2008  e condannato per traffico di droga. L’ironia del caso volle che il Sibilli, che dopo anni di detenzione poteva godere del “regime-aperto”, avesse chiesto ed ottenuto il trasferimento dal carcere di San Juan de Los Morros a quello di Yare I, considerato molto più sicuro. Ma fu proprio lí, nel ‘Yare I’, dove la morte lo raggiunse. Fu ucciso durante una rivolta tra detenuti, in circostanze mai chiarite.

– Dopo la decisione del Tribunale – prosegue Mantovani –, ho sentito un gran vuoto dentro. Una sensazione, un sentimento che non posso spiegare. Ed è stato in quel momento che ho scritto una lettera a mio figlio, resa pubblica dai network.

– Come sta Javier?

– Bene – ci dice -. Gli studenti detenuti stanno tutti insieme in una sala, lontani dal resto dei detenuti. Gli è stata rasata la testa e gli è stato dato l’uniforme del carcere; un uniforme di colore giallo. A Yare III hanno capito che sono studenti, che non sono delinquenti.

L’intervista si svolge nel Centro Italiano Venezolano, in un angolo della Sala titolata al fondatore del nostro Giornale, Gaetano Bafile. Lontani dal viavai di soci, lo schiamazzo tipico di un club pieno di vita e ricco di attività per piccoli e grandi ci giunge sommesso, quasi rispettoso del dolore e del sentimento di sconforto di Mantovani.

– Javier ha una sorella, Valentina. Cosa dice, cosa le ha commentato la ragazza dopo quello che è accaduto al fratello?

– Non l’ha presa bene – ammette Gabriella -. Si chiede come sia possibile che vengano arrestati e messi in carcere dei ragazzi per aver protestato, mentre in strada, liberi, ci sono tanti delinquenti pericolosi che rubano, sequestrano e uccidono. Lei compie ora ventun’anni e Javier è sempre stato il suo fratellino.

Dopo un attimo di indecisione, prosegue:

– Vede, ci facciamo forza a vicenda. Nei miei momenti di debolezza lei mi porta conforto e nei suoi io cerco di consolarla.

Ci dice che ai fini della documentazione richiesta per la difesa di Javier, sia lei che Valentina si sono recate più volte al “Colegio Claret” e all’Università. Si sono rese conto che Javier, che fino a ieri era uno studente come tanti, oggi è diventato famoso.

– E’ appena al secondo trimestre di Ingegneria – ci dice -. Sta iniziando il suo percorso universitario. Eppure, alla ‘Simòn Bolìvar’ è un personaggio popolare. Javier è diventato improvvisamente famoso.

Sorride con semplicità; con la semplicità delle famiglie italiane. E infatti, anche se nata a Caracas, Gabriella Mantovani è italiana come i suoi genitori. Il padre, Francesco Mantovani, milanese, e la madre Maria Anna Ferrari, di Arrienzo in provincia di Caserta, si sono conosciuti in Venezuela. Ormai in pensione, non hanno mai perso il legame con la madrepatria nè l’amore per l’Italia, un amore trasmesso alla figlia e ai nipoti. Valentina, innamorata dell’Italia, e Javier, tifoso degli azzurri, del Milan e grande ammiratore di Ballotelli, viaggiano spesso con i nonni, in particolare durante le vacanze estive.

– Javier è un appassionato di calcio come me – ci dice Mantovani che ricorda con nostalgia il suo passato recente come integrante della squadra femminile di calcio del ‘Centro Italiano Venezolano’ di Caracas -. E’ un tifoso del Milan e – ci confessa sorridendo – spesso litighiamo perché io sono juventina.

Siamo tutti coscienti del fatto che, come ha precisato la nostra Ambasciata, il giovane Mantovani non sia giuridicamente in possesso di cittadinanza italiana mentre, a tutti gli effetti, sia spagnolo da parte di padre. Ma, come abbiamo già scritto sulle colonne della “Voce”, in questi momenti in cui nella nostra Collettività  si alternano sentimenti di angoscia, di rabbia e di impotenza, si spera comunque in un fermo intervento della nostra diplomazia che tenga conto della delicatezza del caso e dei riflessi umani a prescindere dagli aspetti puramente burocratici e strettamente giuridici. D’altronde la nazionalità italiana, sebbene sia vero che bisogna seguire necessariamente un percorso  amministrativo per ottenerla, a Javier spetterebbe di diritto. Un intervento della nostra diplomazia, quindi, verrebbe a coadiuvare e rafforzare quello che, ci auguriamo, farà la diplomazia spagnola.

Non è un segreto che nelle carceri del Venezuela la vita e l’incolumità personale siano fortemente a rischio anche se i ragazzi sono tenuti, per ora, separati dagli altri detenuti. Ecco perché riteniamo non esagerato sottolineare che, quello del giovane italo-venezuelano, possa essere considerato quasi un caso di vita o di morte. Nella migliore delle ipotesi, un’esperienza che segnerà per sempre la sua vita con riflessi psicologici importanti.

Mauro Bafile

 

 

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